Il blairismo: riformismo o conservazione?

Blair«Non concentriamoci su come pensiamo di essere, ma su come siamo percepiti». E, «non potremo mai più essere i più grandi, ma potremmo essere i migliori». In queste due proposizioni di Tony Blair può essere riassunta l’azione riformatrice del leader laburista rispetto alla visione del suo partito, nel primo caso; e al progetto sociale ed economico di rilancio della Gran Bretagna, nel secondo.

Dopo quasi vent’anni dal 1 maggio del 1997 è opportuno rileggere le vicende che hanno attraversato la più longeva esperienza riformista del contesto europeo: dopo quattro sconfitte consecutive e diciotto anni di dominio conservatore, Blair, alla guida del partito laburista dal 1994, ottiene una storica ed eclatante (in voti e seggi) vittoria, riportando il Labour alla guida di Downing Street. Dove resterà fino al 2010, dopo la successione Gordon Brown-Tony Blair del 2007.

Per analizzare in forma compiuta e scevra da condizionamenti ideologici preconcetti una tale extra ordinaria vicenda politica, elettorale, sociale ed economica, è assai utile leggere il volume di Florence Faucher e Patrick Le Galès, meritoriamente edito in versione italiana da Franco Angeli. L’esperienza del New Labour è un agile e denso testo che aiuta a individuare i fattori discriminanti che hanno reso possibile tale affermazione di leadership, governo e partito.

La giornata che celebrava la Festa dei Lavoratori coincise con il trionfo del partito nato dalla costola del sindacato, e da questo sostenuto, dal conflitto, dalla frattura tra capitale e lavoro, nella patria dell’industrialismo. Erano gli anni del Mito e della retorica sul Centrosinistra “mondiale”, sull’Ulivo mondiale, sulla Terza Via mondiale. Si trattava di una sovrapposizione concettuale terribile, posto che ciascun lemma rimanda(va) a prospettive politiche e programmatiche solo parzialmente e superficialmente simili. Ma, si sa, le suggestioni fanno presa e la vittoria della Gauche plurielle del calvinista Jospin qualche mese dopo la prestazione di Blair, preceduta dalla storica affermazione dei post-comunisti in Italia e del secondo mandato del Presidente Bill Clinton, fecero il resto. La maggioranza dei Paesi europei governati da governi progressisti. Il resto è Storia.

Senza nessuna velleità né volontà di riassumere il contenuto del testo, mi limito a riportare due aspetti cruciali nell’azione dei governi Blair. Due chiavi di lettura complementari e mutuamente dipendenti. La prima, relativa alla riforma del partito: da Labour a New Labour. Non solo una distinzione e differenziazione semantica, ma una sostanziale e cospicua rivisitazione e rifondazione del partito. Su basi ideologiche e organizzative nuove. Rinnovate in termini sostanziali e formali per rispondere a una visione diversa di politica e di politiche.

La leadership del New Labour risiede in parlamento. Succede così per i partiti britannici in genere, prova ne sia la sfiducia dei deputati (quelli che noi chiamiamo «gruppi parlamentari» sono il partito) nei confronti di Margaret Thatcher e dello stesso Blair. Conferma che nei contesti parlamentari è cruciale essere, e rimanere, leader del proprio gruppo, pena la defenestrazione politica. Senza tanti complimenti.

In ogni caso il punto focale, seconda chiave di lettura, è che la modernizzazione sostenuta da Blair e dai suoi collaboratori (Gordon Brown in testa) mira a un disegno strategico in cui il partito diventa strumento per l’attuazione di riforme in un progetto a medio-lungo termine. Gli effetti delle politiche possono oggi essere analizzati in forma avalutativa e compiuta. Forse sarebbe il caso di ripetere l’operazione anche per i governi italiani, lasciandosi cioè alle spalle l’ansia della valutazione partigiana per ri-stabilire i giusti contorni di vicende complesse. Conoscere per decidere, raccogliere dati e informazioni su un lasso di tempo medio-lungo, altrimenti l’analisi scade nella cronaca corrente.

Viceversa, il volume di Faucher e Le Galès riporta con grande accuratezza i dati macro-economici, ma anche i dettagli relativi agli effetti controversi delle singole politiche. Frutto di discussioni, approfondimenti, analisi accurate dello staff governativo che adotta un approccio «razionalista» e votato ai paradigmi del New Public Management: lo Stato non è più erogatore di servizi universali, ma si fa garante della regolazione e competizione tra soggetti, spesso privati, che forniscono prestazioni in vari settori sociali ed economici.

Emerge una Great Britain che (forse) non ti aspetti: il Paese con la maggiore povertà tra minori (con condizioni, mutatis mutandis, che però sono “simili” a quelle raccontate magistralmente dal Dickens di Oliver Twist). Anche perché le politiche familiari sono molto deboli e le ragazze madri (single) sono una ferita non adeguatamente lenita dal welfare britannico. Ferita solo enunciata da Blair.

Il Ken Loach di Piovono pietre o di Riff-Raff. Povertà e violenza. Miseria e periferia, capitalismo selvaggio e assenza di sostegno governativo. Effetto in larga misura dell’azione promossa dalla Lady di ferro che si spese per una politica hands-off nelle vicende sociali: il mercato ri-stabilirà gli equilibri. È il trionfo del darwinismo sociale. The Spirit of ’45, ancora Loach, richiama quale fosse lo “spirito”, la visione politica che diede impulso per la nascita del Welfare State. Cui Blair e il New Labour non risponderanno con un nuovo «statalismo», ma con un’azione regolatrice dello Stato, benché gli investimenti statali furono cospicui specialmente in ambito sanitario e scolare. Tema dunque della disuguaglianza cui il New Labour ha tentato di dare una risposta su basi soggettive e mitigando gli effetti del capitalismo e non già in termini strutturali. La distanza tra i meno abbienti e i più ricchi è in parte diminuita, ma rimangono distanze abissali in un Paese tra i più diseguali al mondo.

6793734_piovonopietreLa vittoria conservatrice del 2010 (si veda il testo di G. Baldini e J. Hopkin, La Gran Bretagna di Cameron) e la successione all’interno della leadership del New Labour aprono nuovi scenari e pongono il partito di fronte a nuove sfide, interne e internazionali. Per affrontare le quali, in ogni caso, la classe dirigente laburista dovrà «fare i conti» con gli anni dei governi Blair.La postfazione di Fabrizio Barca, al solito lucido e colto, mette in luce alcuni punti dolenti su cui dovrebbe concentrarsi l’attenzione e l’analisi della sinistra italiana. La quale però, secondo Barca, risiederebbe in un soggetto che solo tangenzialmente corrisponde all’attuale (leadership del) Partito democratico. E’ evidente che i temi di discussione sono ampi e densi e confermano l’utilità del volume in oggetto per approfondimenti futuri.

La opportuna e meritoria scelta di una edizione italiana – la cui traduzione risulta a volte claudicante e con troppi refusi – è indubbiamente uno strumento che i distratti e a volte troppo casarecci politici nostrani farebbero bene a sfogliare. Per capire, per comprendere e comparare. Anziché utilizzare come una clava la vicenda dei governi guidati da Blair per criticare in forma preconcetta quanti volessero ispirarsi a quel «modello», o viceversa farne un feticcio da citare di tanto in tanto. Inevitabili le ripercussioni sul dibattito in Italia: sarebbe opportuno discuterne. Le similitudini tra Renzi e Blair: molto simili e molto diversi. Blair ha costruito la sua leadership all’interno del parlamento (deputato dal 1983) e del partito, Renzi all’esterno. Entrambi hanno tentato di svincolarsi dalla tutela del sindacato, anche se nei due paesi e nei due partiti di riferimento la questione è solo apparentemente simile. Le Unions erano (e in parte restano) potenti e influenti e da esse proveniva larga parte della leadership del partito, nonché fino al 90% dei fondi di cui questo disponeva. Nel caso italiano, nonostante la «cinghia di trasmissione» sovente evocata, la connessione Partito-sindacato è stata meno cogente: il sostegno della Cgil a Bersani è stato un colpo di coda di un modello al tramonto.

Blair ha rifondato il partito sia dal punto di vista organizzativo che ideologico (fino al 1994 la cosiddetta clausola n. 4 prevedeva la nazionalizzazione dell’economia), mentre Renzi ha implementato lo schema definito da Walter Veltroni al Lingotto e nello Statuto da questi promosso. In entrambi emerge chiara la volontà di forte personalizzazione della politica da non confondersi però con la presidenzializzazione. Il New Labour party è un partito socialdemocratico, così lo Statuto. Nel caso del PD Renzi è riuscito, in un quarto d’ora, a dirimere una questione che si trascinava da almeno l’ultimo lustro. Entrambi mirano a «rinnovare» il Paese, la sua economia e il partito che guidano. Sì, lo guidano anche mentre sono al governo, e non è un’anomalia. Semmai il contrario. Renzi non ha vinto (so far) tre elezioni consecutive, ma ha intrapreso un’azione riformatrice profonda che ha attivato un inedito conflitto con i sindacati, deliberatamente annoverati tra i «conservatori», al pari dei dissensi interni al partito. Proprio come fece Blair. Infine, sia Blair che Renzi sono stati a volte accusati di avere continuato le politiche portate avanti da Margaret Thatcher: nel caso dell’azione di governo laburista si tratta di una tra le interpretazioni (vedasi in dettaglio quanto riportato da Faucher e Le Galès), mentre nel caso di Renzi l’accusa sembra un po’ troppo ingenerosa e soprattutto prematura anche perché alcuni consiglieri del Presidente del Consiglio conoscono bene la differenza tra riformismo e conservazione, e non basta – anche se grida vendetta e rapido ravvedimento –  «bloccare» lo stipendio a infermieri e insegnanti fino al 2018 per essere considerati thatcheriani.

È dunque possibile redigere un «bilancio» dei governi Blair? Certamente, ma non in poche righe. Si tratta di una vicenda complessa, o meglio di un «esperimento» (così il titolo dell’edizione originale, frettolosamente tradotto come «esperienza»): un vero esperimento posto che le basi su cui si fondano le scelte delle politiche pubbliche rimandano a indicatori «scientifici», a deliberate decisioni razionali, a un approccio da pianificazione sociale, di centralizzazione nelle mani del governo. L’assunto dello staff, altamente qualificato non solo in ambito di comunicazione politica e spin, è che esistano delle good practices che possono essere reiterate, emulate ed esportate. Punti di forza e di debolezza. La riduzione, parziale, della disuguaglianza, gli investimenti nel servizio sanitario nazionale dopo la drastica azione depauperatrice di Miss Thatcher, e ancora gli investimenti nella scuola e la riduzione del debito pubblico. Ma anche alcuni artifici contabili nel bilancio dello Stato ad opera del Cancelliere dello Scacchiere, e il finanziamento opaco delle attività di partito dopo l’affrancamento dalle Unions. Nonché la vera e propria onta della guerra all’Iraq nel 2003 (il dissenso all’interno del New Labour ci fu: oltre 100 deputati si alzarono in piedi manifestando la propria opposizione. Senza scagliare oggetti o regolamenti parlamentari, come avviene nello Stivale. Stili, e culture, diversi).

Attingere a fonti quali quella offerta da Faucher e Le Galès è opportuno e proficuo per il dibattito. Per chi volesse intendere e per chi volesse sperimentare.