Antonio Segni: le accuse di golpe, lunga esperienza di governo, solo due anni al Quirinale

Il mio editoriale per il Domani parte di una serie di approfondimenti dedicati ai Presidenti della Repubblica

La presidenza meno longeva della storia repubblicana. Un anno e mezzo soltanto il periodo trascorso da Antonio Segni alla guida della carica monocratica più importante. 

La presidenza Segni rimarrà però nella storia per la famigerata vicenda del cosiddetto “Piano solo”, poiché sarebbe stato attuato all’uopo soltanto dall’arma dei carabinieri. Il piano fu elaborato nel 1964 dal Comandante dell’arma dei carabinieri con l’avallo del presidente della Repubblica, il quale tra l’altro convocò proprio al Quirinale lo stesso Giovanni de Lorenzo, durante la fase di consultazioni per la formazione del governo, senza che mai questa vicenda sia stata mai del tutto chiarita. Il progetto prevedeva azioni repressive nei confronti di politici, intellettuali, e figure di rilievo che fossero state ritenute pericolose, soprattutto esponenti della sinistra, e l’occupazione della Rai. Il punto dolente è che queste azioni sarebbero state svincolate dal controllo dei civili/governo, ma gestite direttamente dai militari. Una questione dai contorni inquietanti, anche se la storiografia ritiene fosse un’arma di pressione su Moro e Nenni per accettare posizioni più moderate per il centrosinistra e non un vero e proprio tentato golpe. Nenni comunque parlò di un evocativo “tintinnar di sciabole“.

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Giovanni Gronchi: il primo democristiano al Colle

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Un uomo scalzo corre nella notte romana. È Abebe Bikila e vince la maratona alle Olimpiadi del 1960. Da etiope fu una rivincita postuma rispetto all’Italia fascista, e po’ ricordò Jesse Owens a Berlino nel 1938 davanti a un furioso Hitler, e alla guerra che questa mosse al paese del corno d’Africa nel 1935. E che aveva preparato il complesso dell’Eur 1942 per l’esposizione universale che mai avvenne perché la guerra mondiale arrivò, certo, ma l’Italia decise di entrarvi con “maschio” entusiasmo. È il contesto nazionale e il proscenio internazionale che contrassegna la presidenza di Giovanni Gronchi, secondo capo dello Stato e primo democristiano a ricoprire tale ruolo. I giochi olimpici, i Trattati di Roma e il boom economico, nonché il sempre presente confine ideologico – simbolico e sociale – che divideva l’Italia al suo interno e ne faceva un limes naturale e geopolitico tra Est ed Ovest, ridiedero centralità politica alla Penisola dopo le ingiurie del conflitto. Il centrismo come formula politica (con Dc, Psdi, Pli e Pri) era entrato in crisi anche per la contrazione elettorale democristiana del dopo De Gasperi e non apparve più sufficiente per contenere le istanze delle incipienti pressioni sociali e rispondere alle crescenti rivendicazioni di diritti, sociali, civili, individuali. I segnali delle difficoltà della guida democristiana “indipendente” si erano palesati già con il governo Pella e con quello Scelba durante la fase finale del settennato di Einaudi. Solo la fermezza e irremovibilità di De Gasperi avevano consentito di evitare derive estreme ed alleanze pericolose come pure la componente di destra DC, legata ad ambienti curiali vicini al pontefice Pio XII, aveva tentato con “operazione Sturzo” alle comunali di Roma del 1952 puntando a un sodalizio con monarchici e nostalgici del ventennio. 

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Luigi Einaudi: prediche inutili

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Monarchico”. Il primo Presidente della Repubblica italiana aveva simpatie monarchiche e al referendum istituzionale del 2 giugno 1946 votò a favore della soluzione che in caso di vittoria avrebbe istituito una monarchia parlamentare. Luigi Einaudi aveva chiaramente manifestato la sua scelta di voto sulle pagine di un giornale (L’opinione) argomentando poco prima della consultazione che il suo timore fosse per una deriva social-comunista e comunque per una immaturità degli italiani ad affrontare la Repubblica. Il tutto, in puro stile einaudiano, sostenuto e suffragato da dati, numeri, fonti e citazioni. Insomma, un piccolo saggio pur nel sostenere una tesi e una posizione alquanto disallineate rispetto all’élite politica, ai partiti principali e agli intellettuali. La posizione pro-monarchia è da interpretare anche in relazione allo spirito dei tempi, e ad una sorta di populismo ante-litteram. In realtà Einaudi aveva ben presenti le differenze tra i due sistemi istituzionali e non votò monarchia per slancio verso i Savoia quanto per convinzione che in un inesplorato ed inedito scenario repubblicano la debolezza dello stato e dell’economia post-bellica avrebbero fatto naufragare la fragile ritrovata democrazia italiana. Una democrazia parlamentare cui, come ribadì nel discorso di insediamento presidenziale, “aveva dato più di una mera adesione”, proprio a rimarcare la distanza con la precedente opinione espressa nel 1946. 

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Giorgio Napolitano: dal PCI al socialismo europeo

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Il primo funzionario del PCI a recarsi in visita ufficiale negli Stati Uniti d’America. Lui esponente della corrente “migliorista”, un destro avrebbero detto i detrattori. L’accreditamento presso Washington funzionale al tentativo di accedere al Governo cui lavorava la segreteria Berlinguer e che i lusinghieri risultati elettorali del 1975 e del 1976 resero plausibile, se non ancora probabile, al netto dunque dei vincoli internazionali. Indispensabile, perciò, aprire un canale di comunicazione con la Casa Bianca. Era il 1978 e gli anni della solidarietà nazionale divennero propedeutici a una possibile stabile entrata dei comunisti nell’alveo governativo. La fine del compromesso storico e i cambiamenti all’interno della Democrazia cristiana post omicidio Moro resero il contesto impraticabile, e rinviarono de facto l’alternanza di qualche decennio. Il percorso che porterà un ex comunista nove anni al Colle è stato lungo, ma coerente. Giorgio Napolitano è politico di professione, di lungo corso. Sin dalla Liberazione di Napoli aderì al PCI e sposò la linea del segretario, della svolta di Salerno. Il realismo togliattiano è la cifra costante dell’azione di Napolitano che coniuga l’analisi della realtà, la difesa dei principi e dei valori costituzionali con l’afflato dell’emancipazione e del progresso propri del manifesto comunista. La prima prova arrivò con i Fatti di Ungheria del 1956 e la relativa repressione sovietica nonché la scelta di Togliatti di “coprire” la madre Russia. Allievo e sostenitore di Giorgio Amendola e della linea riformista che sarà la cifra umana, politica e intellettuale di una intera vita politica. Napolitano si cruccerà per quella scelta acritica, ma dettata dall’adesione a un sistema valoriale e organizzativo, a una comunità politica. La situazione cambiò nel 1968 con la Primavera di Praga allorché il PCI prese le distanze da Mosca, pur rimanendo nell’alveo delle organizzazioni ricadenti nell’arcipelago comunista di matrice sovietica. “Dal PCI al socialismo europeo”, come scrive nella avvincente e istruttiva autobiografia ripercorrendo le tappe del percorso politico, umano e intellettuale quale espressione dei massimi dirigenti ed esponenti della sinistra italiana. La pubblicazione di quell’importante testo avvenne l’anno prima dell’elezione presidenziale, un manifesto per il suo settennato, che poi diverrà più lungo. La scalata al Quirinale era dunque iniziata negli anni del PCI, accreditandosi come componente eterodossa, aperturista, dialogante e incline a superare l’organicismo comunista e la dipendenza da Mosca, culturale e ideologica. Dopo una lunga e significativa esperienza all’interno degli organi di partito, Napolitano ricoprì la carica di Presidente della Camera (1992-1994) e poi di ministro dell’Interno tra il 1996 e il 1998 nel primo governo Prodi, una carica pregna di simbolismo nell’immaginario della militanza comunista poiché rappresentativa del potere statale, dell’agognata presa della Bastiglia. Presidente della Commissione affari costituzionali del parlamento europeo (1999-2004) e senatore a vita nominato da Ciampi nel 2005. L’anno dopo il segretario dei DS Piero Fassino per il Colle propose D’Alema in prima battuta, ma il consenso non si coagulò, primariamente nel centro-sinistra. Eletto al quarto scrutinio con i soli voti dei partiti della maggioranza di governo (543) venne spesso per questa ragione attaccato e tacciato di partigianeria ed eccessiva vicinanza al centro-sinistra e al Partito democratico poi, di cui in ogni caso era considerato padre nobile ed ascoltato consigliere e mediatore. La Lega Nord votò Bossi e il centro-destra scheda bianca, tranne Marco Follini sempre autonomo e intellettualmente indipendente. Berlusconi dapprima “neutro” innervò il suo niet all’anticomunismo, sua cifra politica ed elettorale in un Paese senza memoria, proprio verso il meno comunista di tutti. Napolitano è il primo presidente pienamente inserito nella dinamica maggioritaria, o meglio bipolare del sistema partitico. Sebbene la seconda fase della sua presidenza coinciderà con la destrutturazione delle coalizioni pro/contro Berlusconi e la presenza di un terzo polo, il M5s.

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Carlo Azeglio Ciampi: il repubblicano di ferro

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Il 2 giugno celebra la nascita della Repubblica, ma è soprattutto per merito di Carlo Azeglio Ciampi se è diventata una data patrimonio collettivo. O meglio, è tornata ad esserlo dal 2001 allorché la legge “spinta” da Ciampi ha cancellato l’onta del 1977 quando la “festività” venne espunta dal calendario. Il Paese in cerca di strumenti per incrementare la produzione industriale, e in crisi economica, preferì rinunciare alla giornata fondante della propria identità sull’altare monetario semplicemente espungendola dall’almanacco civico. Come se gli USA abolissero il 4 luglio o la Francia il 14 luglio. L’Italia è ancora un Paese senza Stato, e con pochi cittadini anche per le appartenenze separate – democristiani/comunisti – acuite negli anni Settanta. Carenze cui il Presidente Ciampi provò a rimediare con una incessante azione di civismo repubblicano. Lui del resto era espressione del migliore repubblicanesimo, esponente di quel partito d’Azione sbeffeggiato da Massimo D’Alema con realismo togliattiano. Ciampi non era “estremista”, purista perciò contrario agli accordi e al dialogo, ma coltivava la devozione repubblicana, senza compromessi. Conoscitore delle dinamiche economiche e finanziarie, direttore generale della Banca d’Italia per tre lustri – come Luigi Einaudi, altro Presidente governatore della Banca -, era più incline verso il capitale sociale e civico che nei confronti del capitale e del capitalismo senza regole. 

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