Riaprire l’agenda delle Riforme possibili.  

Editoriale per DOMANI

Leggere un libro genera emozioni. Rileggerlo può produrre sensazioni contrastanti. Frustrazione, noia, ripensamento, ma anche esaltazione per le pagine già lette. Il processo riformatore in Italia è stato lungo, lastricato di tappe con successi e battute di arresto e indietreggiamenti. Appare oggi come un libro già letto, con pagine buie, noiose e tentativi palesi od occulti di arrestare la fase di riforme. Altri passaggi sono ricchi di spunti, di richiami simbolici, di vittorie. In una dinamica kafkiana il dibattito si è avviluppato in una spirale in cui la via di uscita appare lontana, più di quanto non sia in realtà, con gli attori dis-interessati, i cittadini occupati in questioni prosaiche. L’agenda dei riformatori dovrebbe essere fitta di impegni e obiettivi, ma gli attori politici hanno perso slancio e capacità di progettare le “cose da cambiare”. Lo scoramento per i diversi tentativi con esito negativo ha impattato sulla voglia di tentare di nuovo, che poi è il senso della filosofia riformista.

Riformare significa innovare, in senso progressista. Tuttavia, il termine ha assunto un valore intrinsecamente positivo sebbene sia utilizzato in forma fungibile da conservatori, reazionari e riformatori. Nel campo politico e istituzionale il dibattito è fermo, per una serie di ragioni storiche e congiunturali. L’esito del Referendum costituzionale del 2016 ha sancito una battuta di arresto sia sulle ambizioni che sul dibattito. L’Italia ha pero’ ancora bisogno di riforme non rinviabili ché dall’assetto politico e istituzionale discendono effetti sistemici che investono – più o meno direttamente – diversi ambiti, sociali, culturali ed economici.

Il sistema elettorale dimostra, dopo tre/quattro modifiche negli ultimi trent’anni, diversi aspetti critici. Non facilita il rapporto di responsabilità (accountability) eletto/elettore, il sistema partitico è molto, troppo, frammentato, l’alternanza è incerta. I due principali partiti raccolgono a mala pena la metà dei voti e, senza l’aiuto di bonus, poco piu’ dei seggi. La frammentazione si è spostata in Parlamento con il proliferare di gruppi autonomi. Una riforma possibile e auspicabile è il “doppio turno di collegio” per Camera e Senato dove il primo turno funge da “primaria” poiché gli elettori possono sostenere il candidato preferito, mentre al secondo turno decidono in base alle caratteristiche del partito/candidato meno sgradito. I candidati/partiti estremi vengono sottorappresentati e le forze politiche fortemente insediate in un collegio possono vincere il seggio poiché il secondo turno aperto limita l’accesso a quanti superino una soglia molto elevata su base circoscrizionale. A livello nazionale l’effetto bipolarizzante non è immediato, soprattutto in assenza di partiti solidi e strutturati, e in un contesto parlamentare, ma la spinta maggioritaria è cospicua.  

A livello regionale la legge elettorale Tatarella del 1995 andrebbe modificata introducendo il ballottaggio. I Presidenti delle Giunte regionali sarebbero eletti certamente dalla maggioranza dei votanti, e inoltre il ballottaggio limita, riduce, il rischio che vengano selezionati candidati e partiti estremi. Il doppio turno presidenziale amplia le opportunità per partiti e candidati “nuovi”, riducendo le barriere per l’effettiva competizione. Con un sistema partitico e politico tripolare (Movimento 5 stelle, Partito democratico e Lega+Fratelli d’Italia) la convergenza verso gli elettori “mediani” indotta dal sistema elettorale a doppio turno chiuso genera certamente dei vantaggi sistemici.

Sul versante del comportamento elettorale è d’uopo procedere all’abolizione delle preferenze per le elezioni regionali, europee, nonché per le comunali, quantomeno nei centri con meno di 15.000 abitanti. In Italia generano, o come minimo riproducono, corruzione, voto di scambio, crescita dei costi della campagna elettorale. La possibilità di esprimere una (o più) preferenza conferisce una parvenza, un’illusione di potere effettivamente scegliere il proprio candidato. È possibile indicare il nome preferito, ma i fattori che determinano l’elezione sono altri e non legati alla scelta degli elettori, che pesa meno del 10%, come indicano le ricerche comparate. Le preferenze indeboliscono la struttura dei partiti amplificandone il tratto correntizio. Non a caso i boss locali (i mafiosi e i campioni di preferenze legali) sovente prosperano sul voto di scambio, da Nord a Sud. Ma le preferenze sono tornate in auge perché i parvenu della politica ne hanno tessuto le lodi, non conoscendo la teoria né i dati, immaginando di replicare la democrazia diretta, ossia uno degli esperimenti sociali di questi tempi.

Inoltre, andrebbe abrogata la legge/abominio che conferisce agli elettori italiani residenti all’estero la potestà di eleggere 12 deputati e 6 senatori. Anche alla luce della riduzione del numero di parlamentari è assai discutibile e genera distorsioni in termini di rappresentanza, di rapporto elettori-eletti e di costi. Nel mondo, oltre all’Italia, quattordici Paesi adottano un sistema di allocazione di seggi all’estero. Quale beneficio ha dunque apportato la norma introdotta con motivazioni colonial-nazionaliste nel 2001? A quale collegio e a che gruppo di elettori i parlamentari rendono conto, qual è la loro constituency, se non poche decine di elettori affezionati? Notabili legati, se va bene, al partito nazionale, spesso incontrollabili politicamente e per indisciplina parlamentare. Grande poi è la disparità nel rapporto eletti/elettori tra le circoscrizioni (1 a 270mila in Sud America vs 1 a 537mila in Europa), per non parlare dell’estensione geografica dei collegi (un senatore rappresenta America centro-settentrionale; il che è francamente illogico nonché un ridicolo ossimoro). E poi rispetto ai candidati nei collegi “Italia” quelli all’”estero” sono eletti con le preferenze, mentre alle elezioni europee dove pure c’è il voto di preferenza, come visto, gli italiani all’estero non hanno tale facoltà…

Dopo il referendum costituzionale del 2020 il Bicameralismo paritario appare ancora più ingiustificato in vista dell’allineamento tra elettorato attivo e passivo, ultimo elemento distintivo degno di nota in vigore. Viceversa, funzioni differenziate accrescono l’efficacia, la legittimazione e l’autorevolezza di ciascun ramo del legislativo purché nel combinato disposto di modifiche al sistema elettorale in chiave “governativa” e di un assetto statale coerente ed efficiente. Che ad esempio ponga rimedio alle disfunzioni del Titolo V.

I parlamentari e i Partiti riprendano dunque in mano l’agenda delle riforme. C’è molto da discutere e da riformare.

Nemici per sempre. Amici miei

Editoriale per IL RIFORMISTA

«Amo così tanto la Germania da preferirne due». Una frase attribuita a Giulio Andreotti, sette volte Presidente del Consiglio, deputato dalla Costituente, più volte ministro. E tanto altro. In realtà si tratta di un quasi falso storico ché a pronunciarla fu il premio Nobel per la letteratura François Mauriac: «Amo talmente la Germania che sono proprio contento ce ne siano due». Al di là del diritto di attribuzione, della diversa finezza linguistica e della proprietà intellettuale contano la provata scaltrezza politica e l’abilità di tattico del Divo. Andreotti in quella frase e nel concetto contenuto intravedeva e delineava l’intero piano del realismo politico democristiano, fornitore della sua condizione di privilegio e posizione di intoccabilità e non contendibilità.

La divisione in blocchi contrapposti e sfere di influenza come definite a Yalta, la “cortina di ferro” delineata da W. Churchill, gli USA e l’URSS, il “bene” e il “male”, il diavolo, il nemico e l’imperitura lotta. In questo contesto l’Italia finì sotto l’egida dello Zio Sam, prodigo, generoso in beni materiali e immateriali, ma anche esigente e occhiuto su quanto si muovesse lungo lo Stivale. I Comunisti – la più grande forza dei paesi occidentali, che aveva lottato per la democrazia e stava scrivendo la Costituzione -, vennero esclusi dal Governo appena De Gasperi poggiò piede sul suolo patrio di ritorno dagli States nell’inverno del 1947; era il fio per il Piano Marshall, ma anche per la richiamata divisione in Blocchi.

La conventio ad excludendum inoltre scartava qualsiasi possibilità di accesso al governo delle “sinistre” nonché, ovviamente, dei post-fascisti che non avevano nemmeno votato per la Costituzione. Il sistema partitico era bloccato, e l’alternanza era “impraticabile” (Giovanni Sartori) stante la distanza ideologica tra PCI e DC. In sedicesimo l’Italia riproduceva, ed esasperava le dinamiche avversariali tra “Nato e Patto di Varsavia”. La logica del “nemico alle porte” era funzionale alla permanenza al potere della Democrazia cristiana, una assicurazione sulla vita (politica) che Andreotti, e non solo, intuì bene e presto. In assenza di alternative praticabili rimane solo un attore in grado di governare. Ma, attenzione, resta legittimato anche un solo (o poco più) partito capace di opporsi. La dualità amico/nemico, elemento base della politica come insegna Carl Schmitt, in Italia trova l’acme durante tutta la fase democratica. Dopo il 1989/1991, con la fine delle celebri Due Germanie, al fattore K si sostituì, a parti politiche invertite, il fattore B-erlusconi. Il piduista – è storia -, il pluri-indagato, l’amico di Bettino Craxi, il datore di lavoro di un mafioso, l’imprenditore rampante, fai da te (fino a un certo punto), il donnaiolo incallito, l’alleato dei post-fascisti, il liberalizzatore, il gaffeur, l’amico dei Conservatori, il proprietario di molte (troppe) tv, adulatore delle masse e delle massaie, cantore dell’evasione fiscale, se “giusta”. Il Caimano, e altri epiteti irripetibili. Reo di avere distrutto i sogni di gloria dell’«allegra macchina da guerra progressista», in realtà già nata sgangherata e con poca capacità di capire il nuovo contesto politico e sociale del 1994.

Che Berlusconi fosse, e sia stato, un personaggio politico con una agenda politica non proprio “progressista” e per certi punti persino perniciosa, a me pare(va) evidente. Che l’uomo fosse spregiudicato è lapalissiano. Il punto politico rimanda però all’attualità, al realismo. Al cambiamento radicale del sistema politico e partitico avvenuto tra il 2011 e il 2019. Si sono succedute tutte le possibili combinazioni di alleanze, coalizioni, tipi di governo che un intero manuale di scienza politica quasi non basterebbe. Rimane però lo stigma del fattore B, nonostante, appunto, il PD, la Lega Nord, Fratelli d’Italia i vari “centristi” abbiano contratto alleanze con Lui senza quasi alcun problema. Quale, dunque, il motivo di tanta acrimonia, al netto delle diversità politiche e del CV del Cavaliere non proprio da studente di Oxford? Una sorta di nuova conventio ad excludendum. Del resto, l’anti-B ha funzionato come garanzia, per molti. La dicotomia tra quelli de “meno male che Silvio c’è” e lo stucchevole anticomunismo urlato da Berlusconi hanno consentito di non rinnovare la classe dirigente della Sinistra, almeno, e in parte, fino alla “rottamazione”, e alla Destra di rimanere incagliata tra nostalgie novecentesche e sogni di liberalismo illusi dalle trame di potere di un uomo solo al comando. È un vantaggio inneggiare, sì inneggiare, all’anti-B in funzione andreottiana, ossia per rimanere saldi al comando che tanto “il popolo impaurito seguirà”. E infatti seguiva, ma poi stanco ha voltato le spalle. E chissà per quanto. Walter Veltroni nel 2008 provò a “normalizzare” il PD, ma anche i rapporti con il principale esponente dello schieramento a noi avverso, non definito appunto “nemico”. Fu un profluvio di accuse, e di ritorno al partito “vero”.

 

 

 

 

 

La cronaca recente racconta di avvicinamenti, di sostegno parlamentare di pezzi di Forza Italia alla manovra di bilancio, mentre altri in ossequio al trasformismo lasciano per seguire la Lega Nord. Se la decisione di votare insieme alla maggioranza fosse presa alla luce del sole, con motivazioni argomentate e, dunque, falsificabili, non credo staremmo allo scandalo. Viceversa, se si trattasse di trame oscure, andrebbero stanate dalle opposizioni e dalla stampa. I partiti decidano assumendosi le conseguenti responsabilità davanti al Parlamento e al Paese. Il quale non è ancora “normale”. Il dualismo amico/nemico ha superato i livelli di guardia, il populismo ha avvelenato i pozzi del vivere comune. La destra e la sinistra non hanno modernizzato la loro visione e la loro agenda, mentre i populisti faticano a decifrare la realtà politica nazionale e internazionale. Una parte della sinistra e una componente ampia del populismo di vario lignaggio rischiano di rimanere in cerca d’autore senza IL nemico. Senza il quale si prosciugherebbero le colonne di interi editoriali(sti), fortune politiche scomparirebbero. Nulla di indecente, ma è importante saperlo.

E se invece di accusare di “tradimento” si parlasse del merito, delle proposte per la crisi economica, sanitaria, culturale, ambientale, in una fase storica diversa e tragica per il Paese? Sarebbe più complicato e ciascuno dovrebbe mostrare cosa sa dire/fare. Meglio, più redditizio “amare così tanto Berlusconi da preferire ce ne siano due”.

Il PD, gli uomini e i pesci

Editoriale per Corriere della Sera (Bo)

Le sconfitte possono fornire grandi insegnamenti. Mentre il successo, se non governato, può condurre fuori strada. La vittoria alle elezioni regionali per il centro-sinistra e il Partito Democratico comportava un rischio potenziale, maggiore per certi versi persino di quello derivante da una storica sconfitta. Il pericolo della perdita di memoria, della cancellazione, della rimozione, del superamento dell’ostacolo congiunturale rimanda gli individui, le organizzazioni, e quindi anche i partiti, ad una condizione di scampato pericolo, di soddisfazione e appagamento rispetto allo stato ansiogeno che precede la prova cruciale. Da una prostrazione raccontata, da proclami di modestia e autodafé nell’imminenza dell’esame elettorale si puo’ facilmente passare alla rimozione, all’arroganza, e quindi alla reiterazione di comportamenti consolidati.

Dopo oltre un anno non è giunta notizia di approfondimenti ragionati, lunghi, critici, profondi, indipendenti e conflittuali sulle ragioni della vittoria. Proprio i successi contengono, sempre, le cause profonde delle sconfitte. Per non continuare a “sorprendersi” delle avanzate della Lega (Nord), delle scarse prestazioni del centro-sinistra che in tre lustri almeno ha visto erodersi non solo il consenso elettorale, ma anche la penetrazione sociale dei suoi valori, la rete di connessioni civica ossia di quella sub-cultura “rossa” che non era affatto composta solo di voti.
Dunque, discutere in sedi pubbliche le cause della penetrazione sociale, culturale e infine, solo infine, elettorale della Lega (Nord). La quale continua a macinare consensi, anche se perde le elezioni. Nel 2019, alle celebrate consultazioni regionali, il partito guidato pro tempore dal Sen. Matteo Salvini ha prevalso in 4 province su 9 dell’Emilia-Romagna. La Lega è giunta prima in tutti i comuni della provincia di Ferrara, in quasi tutti (tranne uno) in quella di Piacenza, in quasi tutti (tranne due) in quella di Parma e in quasi tutti (tranne 4) in quella di Rimini. Inoltre, è stata primo partito in 21 comuni di Forlì-Cesena, 13 Reggio Emilia, 28 di Modena, 12 di Bologna e 2 di Ravenna. Ossia il partito di Salvini è giunto primo nei due terzi dei municipi (63% dei casi, se vi pare poco; erano il 33% nel 2018 e l’8% nel 1996). Infine, la coalizione progressista ha perso 3 seggi consiliari rispetto al 2014, mentre la Lega ormai ha fagocitato l’intera opposizione. Ma tutto questo è passato in cavalleria perché l’importante, come scrivono e dicono in privato in molti, in troppi, è vincere. Anche senza convincere. Basterà aspettare la prossima buriana per spaventarsi di nuovo, per additare il nemico alle porte, per invocare il sostegno dei cittadini contro la presunta presa della fortezza Bastiani da parte dei barbari. Che poi tali non sono. Si tratterebbe di alternanza, fisiologica in democrazia.
Vittoria elettorale quale viatico senza minimamente mettere a fuoco le distorsioni, senza porre al centro dell’analisi la società, le sue contraddizioni, i messaggi che invia – palesi o subliminali -, le reinterpretazioni necessarie alla luce dei cambiamenti strutturali del XXI secolo. Il PD sembra aver fatto tutto questo d’emblée, subito, senza remore. Avanti, verso la prossima battaglia con slancio ardito e fiducia nelle magnifiche sorti e progressive del “buon governo locale”. Ma alla prossima sconfitta, inevitabile nella società delle appartenenze flebili, statene certi, emergerà di nuovo lo stupore e lo sconcerto, misto a sdegno per il comportamento elettorali di molti che proprio non avranno capito quanto il centro-sinistra sia “superiore”:
La paura di perdere pur contro un avversario modesto è stato il fattore scatenante della mobilitazione. Ma queste paure sono ricorrenti, e del resto la storia della Lega Nord e del centro-destra in Regione parlano chiaro. La Lega governa decine di comuni, è primo partito in molte aree specialmente “interne” e puo’ contare su alleati potenti quali le paure (i diversi, la globalizzazione, la città, etc.), i mutamenti sociali in un contesto da ridisegnare, la crisi economica e la disoccupazione. Che sono fenomeni relativamente inediti e recenti a queste latitudini, ma che proprio per questo tendono ad essere paradossalmente più incisivi.
La lettura della vittoria, effettivamente rapida e superficiale, è stata sagacemente agganciata alla prestazione extra-ordinaria del candidato Presidente del centro-sinistra e ad una non bene specificata centralità del movimento delle cosiddette “Sardine”. Se, dunque, Stefano Bonaccini è l’alfiere della vittoria del centro-sinistra, e se una parte rilevante della vittoria è da ascrivere alla capacità di amministratore e di campaigner del Presidente della Regione, non resta che confermare che i “Problemi” permangono. Si sarebbe trattato cioè di una vittoria “personale”, della capacità di un uomo solo di fare la differenza. Viceversa, taluni, come Nadia Urbinati, hanno fornito un’interpretazione della vittoria del centro-sinistra ascrivibile principalmente al contributo delle Sardine. In assenza di dati empirici approfonditi sul punto specifico, possiamo affermare che – vista la geografia del voto -, il peso di Bologna sia stato cruciale, ma che senza una leadership coerente la ri-mobilitazione di un elettorato già identificato e politicizzato non avrebbe generato surplus. Credo che in entrambi in casi si sottovaluti lo scollamento sociale, valoriale, culturale, e dunque elettorale tra le proposte del centro-sinistra e la società emiliano-romagnola. Il tempo e le energie per riflettere e porre rimedio esistono, viceversa, la débâcle è solo rimandata, e non ci saranno uomini o “pesci” a scongiurarla. Bologna non è l’Emilia-Romagna, certo. Ma l’Emilia-Romagna pesa su Bologna. E il comportamento degli aspiranti sindaco del PD a Bologna non lascia intravedere nulla di buono, se non fosse che il centrodestra è in eterno ritardo e perciò non competitivo, per ora. Lo schema è il solito: il PD lancerà i suoi peana prima del voto per fermare il “nemico”, ma all’uopo scatterebbero le prefiche. In assenza di riflessione, di studio, di introspezione sulle ragioni delle vittorie, il centro-sinistra si affida al caso, che è poi anagramma di caos. Per il proprio bene in futuro il PD dovrebbe augurarsi una sonora sconfitta ovvero una vittoria ragionata. Sarebbe salutare.

America. Paese lacerato, non solo da Trump

Editoriale per DOMANI

È ormai chiaro il risultato politico ed elettorale delle presidenziali 2020, mentre il verdetto sul numero di Grandi elettori che comporranno il Collegio che formalmente eleggerà il Presidente della Repubblica degli Stati Uniti dipenderà da questioni legali/amministrative. Nelle more è possibile ritenere alcuni punti cruciali del voto USA. Evitando, come direbbe Francesco Guccini, di “parlarsi addosso” inseguendo l’ultimo lancio di agenzia sulla Pennsylvania, la dichiarazione della CNN e similia.

Il voto consegna un Paese diviso, frammentato, altamente polarizzato. Si tratta di una conferma e non di un esito generato dalle urne del 3 novembre. Gli Stati Uniti sono polarizzati su vari assi. Sul piano ideologico le distanze tra Repubblicani e Democratici sono sempre più ampie, e anche nei due partiti l’ala radicale pesa significativamente e guida l’orientamento ideologico e le proposte di policy. Ne consegue una crescente frattura anche all’interno del Parlamento in cui il voto sul merito è stato fagocitato dalla disciplina di partito, per cui anche su temi trasversali contano di più le appartenenze che le politiche. Per dare contezza di tale distanza, si consideri che per la prima volta nella storia recente la nomina presidenziale di un giudice della Corte Suprema federale (A. Coney Barrett) è stata confermata dal Senato senza nemmeno un voto del partito opposto a quello del capo dell’Amministrazione (Scalia fu votato da 98 senatori). Lo stesso accade sulla sanità, e l’Obama Care divenuto un tema da crociata ideologica tra sedicenti liberisti e presunti propugnatori del socialismo reale. I diritti civili, ferita sanguinosa sin dal capolavoro politico abolizionista di Abraham Lincoln, permangono quale frattura sociale, con tensioni crescenti fra gruppi etnici. A questo si aggiunga la potente segregazione economica e sociale tra l’1% della popolazione che detiene quasi tutto e la base che accede a malapena al poco (tra il 1974 e il 2016 l’indice di Gini è passato da 0.34 a 0.41). La disuguaglianza aumenta tra gruppi etnici con le famiglie bianche dieci volte più benestanti di quelle nere e meno investite dalla disoccupazione (14% vs 18%, fonte: US Department of Labour), le quali rischiano tre volte di più di finire nelle maglie della povertà (8% famiglie bianche, 21% famiglie nere). E come conseguenza una disparità anche nel fato: i neri sono il 23% dei morti per COVID a fronte del 13% del loro peso sull’intera popolazione americana. Anche se per le scelte di voto i latinos hanno in parte deluso le aspettative democratiche in Texas e Florida poiché quel gruppo è eterogeneo, e una parte proviene da Cuba e Venezuela e perciò più affine con l’impostazione Repubblicana.

Il voto ha poi esacerbato la distanza tra città e campagna, tra centro e periferia. Tra zone rurali e urbane, ma anche tra aree geografiche del Paese. Una segregazione persino urbanistica, con contee in cui è praticamente impossibile incontrare un diverso da sé sul piano politico-ideologico. Solo il 3% ha scelto chi votare nell’ultima settimana prima del voto, a conferma del processo di auto-configurazione e consolidamento della identità, come pure evidente dalla rappresentazione dicotomica fatta dalle principali TV, Fox e CNN. Una auto-reclusione entro confini valoriali simili, per escludere l’altro. La mappa elettorale pone benissimo in evidenza che esistono, e persistono due Americhe: quella del voto nelle grandi città, dove i Democratici surclassano gli avversari con percentuali da regimi autoritari, e viceversa aree in cui i candidati del partito Repubblicano travolgono ogni possibile sfidante. Da anni. In Alaska, Idaho, Nord e Sud Dakota, Nebraska, Oklahoma, Utah, Wyoming …  i repubblicani vincono ininterrottamente dal 1972. La probabile vittoria dei Democratici in Georgia non avveniva dal … 1992 (e ci fu la candidatura “terza” di Perot). Il partito Democratico è un partito urbano, quasi ancorato alle riserve dei grandi agglomerati urbani, mentre il Grand Old Party conserva un tratto “nazionale”, ossia più diffuso e omogeneo.

Ma poi esistono due Americhe, due spaccati sociali degni di un romanzo di P. Roth. Del resto per predire il voto il tema più significativo capace di orientare le scelte di campo è l’atteggiamento verso l’aborto. Con i favorevoli decisamente pro-Dem e i contrari pro-Rep, specialmente nella componente evangelica. Cui Trump ha dato fiato, legittimazione politica e copertura culturale partecipando alla marcia del movimento pro-Life (Obama guidò l’omologa in ricordo di quella partita da Selma) e non rinnegando le esaltazioni di odio sociale e ideologico dei negazionisti e suprematisti bianchi e dei complottisti di QAnon (la fanatica J. R. Perkins è stata eletta senatrice in Oregon).

Pertanto, se l’America socio-politica del 2020 in parte è un mix, una dicotomia tra l’atmosfera rurale dell’American Gothic e uno scorcio newyorkese à la Woody Allen, dal punto di vista istituzionale, la prospettiva è meno lacerata. Il sistema sta dando prova di solidità, e i ritardi e le complessità appaiono tali sono agli occhi di osservatori disattenti.

La strutturazione del sistema politico-istituzionale secondo la celebre formula del separate institutions sharing powers andrebbe ripetuta come un mantra per evitare di cedere a mitizzazioni ovvero a semplificazioni da provincia. Comunque andrà a finire il Presidente sarà probabilmente indebolito da una condizione di Governo diviso (non ha la maggioranza omogenea almeno in una delle due assemblee) ovvero i Democratici sarebbero costretti a governare controllando il Senato con uno scarto minimo.

Il Governo diviso è una costante del Governo USA: quasi tre quarti degli anni tra il 1968 ad oggi e il 61% dal 1945 ha visto contrapporsi Presidente e Parlamento di colori politici diversi. Anche in virtù delle elezioni di metà mandato (mid-term) che ogni due anni ri-mettono in discussione gli equilibri politici, in quella che è definita “campagna elettorale permanente”. Che ha l’effetto benefico della responsabilizzazione degli eletti verso i rappresentanti, anche grazie al sistema elettorale maggioritario, e inoltre consente di ri-bilanciare l’equilibrio tra poteri, mutando perciò gli assetti di governo tra esecutivo e legislativo. L’assetto federale va sempre tenuto in conto, sia per leggere le dinamiche politiche e istituzionali, ma anche per comprendere meglio la corrente situazione di potenziale stallo nel ri-conteggio dei voti, postali e non (con annesso ricorsi giudiziari minacciati o promessi). Ciascuno Stato (a volte anche le contee) ha una legislazione elettorale, inclusa la possibilità di disegnare, arbitrariamente, i collegi elettorali della Camera. Con conseguente consolidamento del circuito di demarcazione delle identità e delle appartenenze politiche e partitiche su basi territoriali (gerrymandering).

Le divisioni presenti certamente all’interno della Corte Suprema (sei giudici su nove di nomina repubblicana) potrebbero in realtà essere mitigate dalla volontà di non essere/non apparire partisan da parte dei giudici. I quali nominati a vita tendono a liberarsi dalla “camicia” elettorale cucita addosso dalla scelta presidenziale, certamente su temi non etici con maggiore facilità.

Il voto 2020 ha certamente polarizzato attorno ai due candidati non solo in virtù del sistema elettorale, ma anche in ragione del profilo del Presidente uscente, su cui si è giocato un vero referendum/plebiscito. Aggiuntivo elemento di frattura e divisione. Biden ha vinto nel voto popolare con quasi cinque milioni di scarto rispetto a Trump, una tendenza che vede i Democratici prevalere tra gli elettori dal 1992, con l’eccezione del 2004. Se Biden confermasse – come probabile – la prevalenza in voti dei Grandi elettori – saremmo in presenza di un Paese, come descritto, in cui i Rossi si contrappongono ai Blu. Su temi e su valori essi stessi divisivi e cruciali.

Infine, la partecipazione elettorale è stata elevata, quasi il 70%, la più consistente dal 1920, allorché il XIX emendamento costituzionale introdusse il suffragio universale, e 15 milioni in più rispetto al 2016. Gli americani hanno voglia di politica, partecipano, scendono in campo, elargiscono donazioni, fanno attività di volontariato nei partiti e per i partiti (lo sono gli occhiuti scrutatori di queste ore), agiscono in campagna elettorale, nutrono cioè la democrazia anche attraverso la militanza. Altroché partiti liquidi, come qualcuno li aveva sbeffeggiati, non conoscendoli. L’Europa ha molto da imparare dal modello americano, quanto a virtù da coltivare e vizi da bandire. Seppur diviso vale sempre E pluribus unum.

Le radici della protesta. Autoritarismo borghese.

mio editoriale per IL RIFORMISTA

Nessuno controlla la Piazza, che però non è nemmeno spontanea. La radice della protesta mascherata dalla pandemia rimanda in realtà a una matrice autoritaria che per ora non ha spazio diffuso, ma che si allena per esperienze futuribili. La spinta principale a “scendere in piazza” deriva dalla paura: non del contagio o del confinamento, ma, piuttosto, della perdita di status. Il timore che la condizione di relativo privilegio venga messa in discussione dalla “crisi”, ossia dal cambiamento dalle politiche attuabili quali risposta alla crisi sanitaria, e quindi dalla potenziale riconfigurazione sociale che ne deriverebbe. L’impalcatura autoritaria dei movimenti si nutre sostanzialmente della preoccupazione della classe media di ritrovarsi in crisi economica, ma soprattutto di condizione e percezione sociale, ed è esposta alla temperie di tentativi di egemonia da parte di vari attori che però non hanno la forza intellettuale e organizzativa per guidarli.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il COVID-19 con il suo portato di impatto economico-finanziario, sociale, psicologico e politico è stato il fattore scatenante, ma solo in parte. Sarebbe infatti distorsivo considerare il “Virus” quale variabile determinante nel processo di attivazione di movimenti di protesta che in queste settimane, e probabilmente in quelle future, stanno crescendo nelle piazze italiane delle grandi città. Esistono ragioni più profonde, strutturali, sociali, economiche e politiche che hanno consentito ad alcuni imprenditori della piazza di attivarsi grazie alle opportunità offerte dalla pandemia.

L’Italia è un Paese fortemente diseguale (World Inequality Database e Banca Mondiale), con potenti elementi di divisione economica e quindi sociale che attraversano ambiti dell’intera comunità seppur con accenti diversi. Sono distanti le potenzialità tra grandi città e comuni interni, tra aree del Nord e periferie del Sud, tra giovani e adulti, tra uomini e donne, tra lavoratori e disoccupati, tra chi “ha” di più e chi possiede sempre meno. Tra il 1984 e il 2009 la percentuale di ricchezza posseduta dall’1% della popolazione è passata dal 6% al 10% circa, mentre contemporaneamente la concentrazione di fortuna nelle mani del 10% più abbiente dei cittadini è cresciuta dal 23% del 1985 al 32% del 2016%. Inoltre, sono quasi 2 milioni le famiglie in condizione di povertà assoluta, pari a circa 4,6 milioni di individui (7,7% del totale, Istat 2019).

La fragilità sociale derivante dalla disuguaglianza economica si somma alla scarsezza dei pilastri della mediazione politica, partiti e sindacati, un tempo numi tutelari dei più deboli e diseredati. I partiti, specialmente, quelli di sinistra, hanno quasi-abdicato alla funzione storica di lotta all’ingiustizia sociale, alla povertà, parola biecamente sostituita da anglicismi o neologismi. Un’onta da nascondere, un azzardo parlarne. Anche i sindacati paiono ormai rifugiati nella difesa dei difendibili, e non scovano più gli ultimi della classe, non incalzano nemmeno i governi nominalmente amici per politiche simboliche quali il rinnovo del contratto di lavoro dei dipendenti pubblici, dissanguati da anni di liberismo selvaggio, cui pare il Ministro Gualtieri voglia, meritoriamente, rimediare.

Ma la “povertà” da sola non basta a mobilitare, come evidente dalla Storia; si pensi alla Rivoluzione francese, su tutte. Senza la borghesia i sans-culottes sarebbero stati massacrati dalla gendarmerie di Luigi XVI. E, inoltre, è bene ricordarlo, non siamo ai moti per il pane ché l’Italia dispone ancora di un solido sistema di welfare, di strutture di sanità pubblica e universalista nonché di risorse materiali da redistribuire e, infine, di una rete di associazionismo solidale che all’uopo sopperisce alle carenze collettive.

Pertanto, delle manifestazioni di piazza delle ultime settimane è possibile ritenere tre punti fondamentali:

  1. La testa del movimento è a destra. Nell’estrema destra che punta a rilegittimarsi, dopo anni di laissez-faire civico, di smemoratezza storica e abbandono delle postazioni, delle casematte, dell’antifascismo, non nominale, ma della cultura repubblicana. Stoicamente coltivata dal Quirinale, ma trascurata dai partiti.
  2. Si tratta di un processo di ri-mobilitazione. Secondo Gino Germani, celebre sociologo politico emigrato in Argentina per le persecuzioni fasciste, la mobilitazione inizia quando la società inizia a disgregarsi. La mobilitazione secondaria, portata avanti da coloro che temono il protagonismo degli esclusi ben si addice alla fase in corso. Una sorta di contromobilitazione. Nel caso in specie però la borghesia non si scaglia contro i movimenti operai, ma contro il Governo, nazionale o sovra-nazionale che sia. Un paradosso, in parte, qualcosa di inedito e inquietante.
  3. Ad attivarsi non sono, ovviamente, i ceti popolari e popolani, ma è la classe media, la borghesia persino, ossia quei settori che sentono/temo una perdita possibile di status.

La borghesia dirige il proprio malessere e malcontento verso il Governo e le presunte élite. Che però, notorio, questo il grande abbaglio populista e il dramma culturale, non esistono. Specialmente in Italia abbiamo piccole burocrazie di partito e gruppi dirigenti di scarso lignaggio e leadership occasionale, ma per nulla egemonica.  È cruciale dunque capire, individuare e spiegare chi attiva il processo di mobilitazione, chi si attiva, ovvero è ri-attivato; chi è soggetto alla mobilitazione ed eventualmente alla smobilitazione. A dar vita al movimento sono “vecchie glorie” del neo-fascismo con cui la legge è stata troppo indulgente, insieme a ultras del calcio in astinenza da adrenalina domenicale. A questi si uniscono sinceri democratici esasperati dalla crisi economica generata dal COVID. Nella dilagante fase di individualismo e individualizzazione la lettura principale delle manifestazioni di piazza vede pertanto il malessere economico coniugato con un pizzico di sciacallaggio ribellista senza colore politico. È una lettura superficiale e dozzinale, mentre il disegno è piuttosto chiaro come la Storia del Paese e dell’autoritarismo di ogni latitudine. Certamente esistono delle differenziazioni tra grandi città e piccoli centri (sin ora non investiti, non a caso, dalle proteste), tra aree geografiche (il sud più esposto a derive di estrema destra e il nord all’estremismo di sinistra), tra lobbying di categoria, corporativismo, esasperazione, e ribellismo. Una sorta di potpurri in cerca d’autore e soprattutto di leadership che, statene certi, non sarà né Salvini – senza physique du rôle, né Meloni – che si ostina a non modernizzare il partito, tantomeno l’estrema-destra militante senza leader. La marea potrebbe però dilagare disintegrando parti della tenuta sociale.

Le Democrazie per quanto solide non possono però cavarsela con sermoni ed appelli al senso civico. I Governi hanno il dovere di rispondere alle istanze provenienti dal basso proprio per evitare di alimentare il fuoco autoritario. L’uomo piccolo-piccolo, il borghese di Cerami/Sordi fa più paura della massa perché potrebbe fare “scuola” e innescare un processo imitativo di rivolta e di disintegrazione del sistema. I partiti democratici dovrebbero intervenire e guidare, incanalare, assorbire la protesta e gestirla entro dinamiche istituzionali, senza timore di ricevere qualche sonora critica dato che la posta in palio è molto più grande di un piccolo sgambetto nei sondaggi. Il COVID ha solo reso palesi e patenti le contraddizioni sociali, economiche e politiche della società italiana che si risolvono soltanto con il conflitto. Dipende da chi avrà la capacità di guidare ed egemonizzare il processo di transizione, chi sarà in grado di mobilitare, eventualmente di ri-mobilitare, per evitare il rischio di smobilitare. Che significa, sempre Germani, una deriva autoritaria compiuta con silenziamento di ogni partecipazione degli esclusi.