La Lega oltre la protesta, quasi al governo

Gianluca Passarelli e Dario Tuorto (Mulino)

Era nelle cose che la Lega avanzasse e riempisse un vuoto: il responso elettorale del 4 marzo ha sancito il successo della strategia di Matteo Salvini. Il 17% su scala nazionale, che fa della Lega la terza forza politica del Paese a un solo punto di distanza dal Pd; è il risultato più alto nella sua storia, ormai trentennale. Ma il successo più importante è il sorpasso netto su Forza Italia, in un quadro di rapporti di forza interni alla coalizione rovesciati al punto da rischiare di destabilizzare un centrodestra senza i numeri per governare da solo. Siamo qui in presenza di un vero e proprio ribaltamento del forza-leghismo lucidamente delineato da Edmondo Berselli. Siamo al leghismo-forzista, ma la sostanza non cambia: è in quel magmatico mondo ostile al civismo repubblicano che Salvini ha fatto il pieno.

Francamente non c’è da sorprendersi, almeno tra chi studia il partito da tempo. Gli elementi sociali, politici ed elettorali per l’avanzata leghista c’erano tutti. L’exploit della Lega parte dal 2010 e continua nei due anni successivi, nonostante gli scandali e la successione a Bossi. In questa fase convulsa del partito Salvini inizia a costruirsi uno spazio politico autonomo sino alla scalata a segretario federale. La linea dirigista imposta dal nuovo leader lo porta a marginalizzare i rivali, a partire da Flavio Tosi per arrivare allo stesso Roberto Maroni che pure aveva legittimato la sua ascesa.

Dopo il 2012 la Lega si sposta definitivamente a destra. Se negli anni Novanta i voti provenivano soprattutto dal centro dello spettro politico-ideologico, nel periodo successivo si assiste a uno slittamento progressivo dell’elettorato su posizioni più estreme. Questo cambiamento investe anche i militanti, in particolare i nuovi iscritti; una componente meno interessata alle questioni del regionalismo e dell’economia e sempre più “estremista”, intollerante, autoritaria. Già da alcuni anni, dunque, la Lega si è andata configurando come una formazione xenofoba e politicamente violenta. Nonostante ciò, in Italia, la classe dirigente e la borghesia hanno faticato ad accorgersene trattando con indulgenza un fenomeno allarmante. In altri Paesi, più civili e meno ipocriti, chi occupa posizioni chiave nella società e nella politica prende le distanze dall’estrema destra. Uno per tutti: Jacques Chirac nel 1997 decise di non stare con Le Pen per disciplina repubblicana, al costo di perdere le elezioni.

Coerentemente con la strategia di riposizionamento ideologico, la Lega compie, sul piano programmatico, una torsione altrettanto netta, passando da movimento federalista e autonomista a partito nazionale. La metamorfosi imposta da Salvini comporta l’abbandono tattico della battaglia per la secessione della Padania. L’indipendentismo lascia spazio al sovranismo e ai temi classici della destra: lotta alla mondializzazione, all’immigrazione, all’Europa della moneta unica e dell’accoglienza. Queste battaglie contro il “buonismo democratico” erano già presenti da tempo, ma è solo nella stagione più recente che vengono inquadrate in una cornice nuova, in cui l’idea di partito del Nord e la stessa questione settentrionale si stemperano dentro un progetto di nazionalizzazione dei programmi, delle parole d’ordine e, soprattutto, dei consensi. Mai come nel 2018 la Lega appare vicina a realizzare tale obiettivo, soprattutto sul piano elettorale. I risultati del voto indicano come il partito si sia consolidato nelle aree tradizionali (oltre il 30% nel lombardo-veneto) e sia cresciuto nelle regioni rosse (lo aveva fatto anche in passato ma non in modo così generalizzato, con un avanzamento che lo porta a sfiorare il 20% e a sfidare il Pd). Il dato nuovo è lo sfondamento nelle regioni del Centro Italia. È in quest’area, mai leghista in passato, che si coglie la portata del cambiamento: la più netta ed esplicitata connotazione ideologica ha aiutato presumibilmente a rafforzare il legame con frange di elettorato ex o post-fascista, storicamente radicate in questi territori e alla ricerca di una nuova e più forte rappresentanza. Infine, la Lega arriva anche al Sud, sebbene riesca a insediarvisi solo parzialmente.

Quali sviluppi politici si profilano per la formazione di Salvini? Occorre distinguere il piano dell’attualità da una riflessione più ampia. Se ci si concentra sugli esiti del voto appare chiaro che la virata a destra abbia consentito al partito di legittimarsi come forza trainante della coalizione. Tuttavia, se si sposta lo sguardo in prospettiva, emergono alcuni dubbi sulle reali capacità della Lega di sfruttare appieno questa congiuntura favorevole. Oggi il partito domina il centrodestra: a centro assorbendo i voti di Forza Italia, a destra cannibalizzando l’area di Fratelli d’Italia e dei gruppi neo/post-fascisti. Questo piano egemonico ha prodotto un quasi scontro con Berlusconi. Per quanto nella storia della Lega le relazioni con l’uomo di Arcore siano state spesso ambigue, la legittimità di comando del leader di Forza Italia non era stata mai messa in discussione. Al contrario, Salvini ha surclassato l’alleato sino a condizionare il posizionamento politico del suo partito, che finisce sì per sposare la linea leghista, ma in uno scenario in cui il voto moderato diventa minoritario.

L’incognita più grande sul futuro della Lega, e più in generale del Paese, deriva però dagli esiti stessi del voto. A differenza del 2013, la spinta anti-establishment si è fatta maggioranza e ha premiato entrambe le anime della protesta: una post-ideologica del Movimento 5 Stelle e l’altra radicalmente schierata a destra della Lega. Queste due espressioni del disagio elettorale faranno fatica non solo a governare assieme, ma anche a ricomporre le istanze di cambiamento avanzate dagli elettori in una direzione unitaria sul piano sociale e territoriale. Se è vero che la Lega è riuscita a intercettare una parte dell’elettorato 5 Stelle al Nord, è anche vero che al Sud il M5s rappresenta un argine per ora invalicabile che impedisce al leghismo di farsi progetto realmente nazionale. A prescindere dalla comune critica all’Unione europea dei burocrati, all’immigrazione incontrollata o alle caste della vecchia politica, Lega e Movimento 5 Stelle ottengono successi separati. Le mappe dei collegi, nella loro nettezza cromatica, consegnano la fotografia di un Paese spaccato in due, secondo linee divisorie che di nuovo non hanno proprio nulla: il Nord aggrappato allo sciovinismo leghista per difendere posizioni di vantaggio relativo e il Sud che demanda al ribellismo a 5 Stelle la speranza di neo-mediazione politica. L’estrema destra è sull’uscio di Palazzo Chigi. Sull’altro Colle però sono vigili.