La sindrome del tiranno

Editoriale per IL RIFORMISTA

La maledizione delle variabili. Nella politica italiana si sommano diversi fattori nel produrre inefficienza. La recente crisi di governo ha generato una distorsione ottica e quindi cognitiva con conseguente morbosa e inutile attenzione per il compartamento dei singoli attori. La fine dell’esecutivo Conte II è stata politicamente sancita dalle tensioni interne alla coalizione, ma in realtà le vere motivazioni rimandano a un dato strutturale. L’assenza di un assetto istituzionale ed elettorale coerenti ed adeguati a generare, o perlomeno favorire, una democrazia governante.
L’impianto istituzionale concepito nel 1948 è l’apogeo della stasi, l’esaltazione della negoziazione permanente e del ricatto costante, la proliferazione dei veto players perché ordito in un contesto – nazionale ed internazionale – di reciproca e mutua sfiducia tra due campi, e i rispettivi principali partiti. Nessuno dei quali doveva né poteva governare senza l’avallo, il controllo ossessivo della controparte. Cui si aggiunse la sindrome del tiranno, retaggio del passato fascista, la paura di un uomo solo al comando (che poi mai sia interamente così andrebbe tenuto in debita considerazione), il terrore per decisori e decisioni chiare.

L’instabilità dei governi è stata la cifra distintiva della Repubblica, sia nel primo periodo (durata media pari a undici mesi a fronte di immutabile personale ministeriale) che dopo il 1994 allorché si sono avute alternanze tra schieramenti opposti sebbene la longevità media sia aumentata punto o poco significativamente. La bi-polarizzazione, falsa e limitata nel tempo, è stata dovuta essenzialmente al fattore B., catalizzatore di giudizi dicotomici ad personam piuttosto che a visioni genuinamente alternative in base a piattaforme politiche e programmatiche. La tendenza all’indistinta melassa unificante e soffocante, mascherata a volte da Große Koalition, è emersa variamente negli ultimi vent’anni. Che solo apparentemente diviene ossimoro plebeo in coppia con il frazionismo guelfo-ghibellino dell’italico cor. Solo funzionale a celare e compensare l’incapacità per una sincera alterità ideale/ideologica costante e a far fronte ad una teatrale litigiosità inconcludente, in un Paese di “compaesani”.
La conflittualità all’interno delle coalizioni, la scarsa longevità dei governi, la proliferazione di micro formazioni partitiche pseudo personali, l’assenza di politiche pubbliche di ampio respiro e lungimiranti, la frammentazione, rimandano non al destino malizioso, ma a precise cause politiche ed istituzionali.
In Italia convivono due carenze, gravi. Un sistema elettorale debole e un sistema partitico ultra destrutturato. Nonostante, et pour cause, quattro principali riforme la procedura di trasformazione dei voti in seggi è congegnata per avere limitati o nulli effetti constrittivi e strutturanti. Analogamente, il sistema politico è privo di partiti solidi, nazionali, strutturati, organizzati territorialmente e in grado di produrre una proposta coerente a livello nazionale (per carità di patria sorvoliamo sul becero compartamento in materia di Covid di presidenti di regioni dello stesso colore politico). Il combinato disposto di sistema elettorale debole e sistema partitico non strutturato (anch’esso debole) paralizza la politica e come indica Giovanni Sartori non ha alcuna influenza. Risiede lì il motivo delle crisi.
Sul piano elettorale il concetto distorto di rappresentanza lascia spazio a nano-particelle che pure non rispecchiano nessuna reale frattura sociale, economica, politica. Biechi meccanismi autopromozionali per nulla migliorativi del rapporto elettore/eletto/territorio. Decine di piccole rane gracidano nello stagno, tutte con pari forza ostativa e vincolante. La morta gora.
In media (dal 1948) si hanno dieci partiti con seggi in parlamento, di cui solo metà con percentuali di voti maggiori del 4%. Il livello di frazionalizzazione è aumentato e la forza aggregante dei due principali partiti si è contratta: 79% di voti e seggi nel 1948, picco ancora nel 1976, ma punto minimo nel 2018 (52%). Aggiungiamo la media di nove gruppi parlamentari e di otto forze rilevanti.
La palude è permanente, i partiti senza forza nazionale. Pertanto, l’invocazione del messia, del salvatore, l’uomo della provvidenza, è la ciclica normalità. Insoddisfatta, ché politica e società sono complesse, per fortuna.
In questo contesto drammatico la decisione del Presidente del Consiglio dei Ministri Mario Draghi di non indicare un dicastero per le riforme appare decisamente poco adeguata. È esattamente il cantiere delle riforme che va ri-aperto, anche prima di quelli fisici, proprio perchè incomplete. Il processo riformatore non sia visto come le forche caudine, ma come l’opportunità, l’unica, per rimuovere all’origine le cause della stasi. Nel 1976 fu il PSI a varare la Grande Riforma, progetto coordinato da Giuliano Amato, in dialogo costante con le professionalità necessarie a produrre un cambiamento sistemico.
Una delle riforme puntava all’elezione diretta del Capo dello Stato, tema all’epoca tabù per miopia, para e scarsa conoscenza, e oggi nemmeno preso in considerazione. Sistemi a elezione popolare diretta non meno efficaci, effcienti e democratici di quelli parlamentari. Sarebbe d’uopo tornare a discuterne senza pregiudizi specialmente in vista della scadenza del mandato presidenziale anche per anticipare le vestali del ‘potere del popolo’ che lamenteranno discrasie tra la volontà popolare e la scelta del Palazzo. Il Parlamento discuta, senza timore per alcunché e senza autocensure preventive. I partiti propongano, magari partendo dal doppio turno di collegio.