Riaprire l’agenda delle Riforme possibili.  

Editoriale per DOMANI

Leggere un libro genera emozioni. Rileggerlo può produrre sensazioni contrastanti. Frustrazione, noia, ripensamento, ma anche esaltazione per le pagine già lette. Il processo riformatore in Italia è stato lungo, lastricato di tappe con successi e battute di arresto e indietreggiamenti. Appare oggi come un libro già letto, con pagine buie, noiose e tentativi palesi od occulti di arrestare la fase di riforme. Altri passaggi sono ricchi di spunti, di richiami simbolici, di vittorie. In una dinamica kafkiana il dibattito si è avviluppato in una spirale in cui la via di uscita appare lontana, più di quanto non sia in realtà, con gli attori dis-interessati, i cittadini occupati in questioni prosaiche. L’agenda dei riformatori dovrebbe essere fitta di impegni e obiettivi, ma gli attori politici hanno perso slancio e capacità di progettare le “cose da cambiare”. Lo scoramento per i diversi tentativi con esito negativo ha impattato sulla voglia di tentare di nuovo, che poi è il senso della filosofia riformista.

Riformare significa innovare, in senso progressista. Tuttavia, il termine ha assunto un valore intrinsecamente positivo sebbene sia utilizzato in forma fungibile da conservatori, reazionari e riformatori. Nel campo politico e istituzionale il dibattito è fermo, per una serie di ragioni storiche e congiunturali. L’esito del Referendum costituzionale del 2016 ha sancito una battuta di arresto sia sulle ambizioni che sul dibattito. L’Italia ha pero’ ancora bisogno di riforme non rinviabili ché dall’assetto politico e istituzionale discendono effetti sistemici che investono – più o meno direttamente – diversi ambiti, sociali, culturali ed economici.

Il sistema elettorale dimostra, dopo tre/quattro modifiche negli ultimi trent’anni, diversi aspetti critici. Non facilita il rapporto di responsabilità (accountability) eletto/elettore, il sistema partitico è molto, troppo, frammentato, l’alternanza è incerta. I due principali partiti raccolgono a mala pena la metà dei voti e, senza l’aiuto di bonus, poco piu’ dei seggi. La frammentazione si è spostata in Parlamento con il proliferare di gruppi autonomi. Una riforma possibile e auspicabile è il “doppio turno di collegio” per Camera e Senato dove il primo turno funge da “primaria” poiché gli elettori possono sostenere il candidato preferito, mentre al secondo turno decidono in base alle caratteristiche del partito/candidato meno sgradito. I candidati/partiti estremi vengono sottorappresentati e le forze politiche fortemente insediate in un collegio possono vincere il seggio poiché il secondo turno aperto limita l’accesso a quanti superino una soglia molto elevata su base circoscrizionale. A livello nazionale l’effetto bipolarizzante non è immediato, soprattutto in assenza di partiti solidi e strutturati, e in un contesto parlamentare, ma la spinta maggioritaria è cospicua.  

A livello regionale la legge elettorale Tatarella del 1995 andrebbe modificata introducendo il ballottaggio. I Presidenti delle Giunte regionali sarebbero eletti certamente dalla maggioranza dei votanti, e inoltre il ballottaggio limita, riduce, il rischio che vengano selezionati candidati e partiti estremi. Il doppio turno presidenziale amplia le opportunità per partiti e candidati “nuovi”, riducendo le barriere per l’effettiva competizione. Con un sistema partitico e politico tripolare (Movimento 5 stelle, Partito democratico e Lega+Fratelli d’Italia) la convergenza verso gli elettori “mediani” indotta dal sistema elettorale a doppio turno chiuso genera certamente dei vantaggi sistemici.

Sul versante del comportamento elettorale è d’uopo procedere all’abolizione delle preferenze per le elezioni regionali, europee, nonché per le comunali, quantomeno nei centri con meno di 15.000 abitanti. In Italia generano, o come minimo riproducono, corruzione, voto di scambio, crescita dei costi della campagna elettorale. La possibilità di esprimere una (o più) preferenza conferisce una parvenza, un’illusione di potere effettivamente scegliere il proprio candidato. È possibile indicare il nome preferito, ma i fattori che determinano l’elezione sono altri e non legati alla scelta degli elettori, che pesa meno del 10%, come indicano le ricerche comparate. Le preferenze indeboliscono la struttura dei partiti amplificandone il tratto correntizio. Non a caso i boss locali (i mafiosi e i campioni di preferenze legali) sovente prosperano sul voto di scambio, da Nord a Sud. Ma le preferenze sono tornate in auge perché i parvenu della politica ne hanno tessuto le lodi, non conoscendo la teoria né i dati, immaginando di replicare la democrazia diretta, ossia uno degli esperimenti sociali di questi tempi.

Inoltre, andrebbe abrogata la legge/abominio che conferisce agli elettori italiani residenti all’estero la potestà di eleggere 12 deputati e 6 senatori. Anche alla luce della riduzione del numero di parlamentari è assai discutibile e genera distorsioni in termini di rappresentanza, di rapporto elettori-eletti e di costi. Nel mondo, oltre all’Italia, quattordici Paesi adottano un sistema di allocazione di seggi all’estero. Quale beneficio ha dunque apportato la norma introdotta con motivazioni colonial-nazionaliste nel 2001? A quale collegio e a che gruppo di elettori i parlamentari rendono conto, qual è la loro constituency, se non poche decine di elettori affezionati? Notabili legati, se va bene, al partito nazionale, spesso incontrollabili politicamente e per indisciplina parlamentare. Grande poi è la disparità nel rapporto eletti/elettori tra le circoscrizioni (1 a 270mila in Sud America vs 1 a 537mila in Europa), per non parlare dell’estensione geografica dei collegi (un senatore rappresenta America centro-settentrionale; il che è francamente illogico nonché un ridicolo ossimoro). E poi rispetto ai candidati nei collegi “Italia” quelli all’”estero” sono eletti con le preferenze, mentre alle elezioni europee dove pure c’è il voto di preferenza, come visto, gli italiani all’estero non hanno tale facoltà…

Dopo il referendum costituzionale del 2020 il Bicameralismo paritario appare ancora più ingiustificato in vista dell’allineamento tra elettorato attivo e passivo, ultimo elemento distintivo degno di nota in vigore. Viceversa, funzioni differenziate accrescono l’efficacia, la legittimazione e l’autorevolezza di ciascun ramo del legislativo purché nel combinato disposto di modifiche al sistema elettorale in chiave “governativa” e di un assetto statale coerente ed efficiente. Che ad esempio ponga rimedio alle disfunzioni del Titolo V.

I parlamentari e i Partiti riprendano dunque in mano l’agenda delle riforme. C’è molto da discutere e da riformare.