Sistema elettorale: la quadriglia bipolare

Il mio editoriale per DOMANI

La quadrille bipolaire. Era così definito il sistema partitico francese degli anni Settanta-Ottanta per la presenza di due partiti rilevanti in ciascuno degli schieramenti. Ogni polo aveva un partito medio-grande che fungeva da guida e uno medio-piccolo che svolgeva al contempo il ruolo di sfidante, di stimolo, e di alleato. I socialisti capitanati da F. Mitterrand potevano contare sul sostegno del PCF, il partito comunista, mentre i gollisti di J. Chirac beneficiavano del fedele sostegno dei liberali centristi dell’UDF di V. Giscard d’Estaing. La meccanica bipolare era sostenuta e favorita dal sistema elettorale maggioritario per le politiche e amplificata dall’elezione popolare diretta del capo dello Stato. Ossia la caratteristica principale introdotta da C. De Gaulle su cui nacque, o meglio si consolidò, la Quinta Repubblica. La guida per ciascun campo, e quindi l’accesso al Governo attraverso un proprio Primo ministro e la candidatura quale front runner per la Presidenza della Repubblica, dipendeva dai rapporti di forza tra i rispettivi frères ennemis. Il partito in testa al primo turno, delle presidenziali e delle politiche, riceveva il sostegno esplicito del compagno di coalizione/schieramento. Il tutto in una chiara e distinta dinamica bipolare tra centrodestra e centrosinistra. I socialisti sono stati indiscussi egemoni del campo di sinistra per un trentennio, mentre nel campo conservatore la contesa è stata meno definita grazie all’attivismo e alla personalità di Giscard d’Estaing, capace di sfidare, sebbene temporaneamente, Chirac e i gollisti. L’implosione elettorale socialista e ancora prima la presenza crescente del Front national hanno modificato quell’assetto. 

Nel caso italiano la discussione sul sistema elettorale, meritoriamente rilanciata da Enrico Letta, e le prospettive sul doppio turno, aprono una potenziale strada per il consolidamento del sistema partitico italiano. Il quale è debole e quindi andrebbe contro-bilanciato dalla forza del sistema elettorale, per evitare l’eccessiva frammentazione, e la conseguente instabilità e immobilità decisionale. La discussione è ancora preliminare e sarà decisivo capire se l’orientamento potrebbbe andare in direzione dei collegi uninominali (come in Francia) ovvero di una contesa nazionale. La quale, attualmente più probabile, ha il vantaggio di conferire una maggioranza numerica cospicua, ma pone altresì alcuni problemi potenziali su cui utile riflettere, laicamente. Il doppio turno nazionale è normalmente adottato in regimi presidenziali, ossia per eleggere cariche monocratiche. Nel caso in specie, dovendo allocare dei seggi andrebbe tenuto conto di un rischio politico, posto che sul piano giuridico la Corte Costituzionale si è pronunciata favorevolmente. Potenzialmente una coalizione/partito otterrebbe il 55% dei seggi pur con circa il 45% al primo turno; e viceversa sarebbero possibili casi in cui il vincitore del ballottaggio riceva la stessa quantità di seggi pur con percentuali di voto superiori al 55%. Ne deriva che andrebbero discussi alcuni elementi quali: 1) il limite minimo per vincere al primo turno; 2) l’adozione di soglie accessorie come la percentuale di elettori recatisi alle urne; 3) il raggiungimento di una quota di voti (35%, per esempio) nella maggioranza delle province/regioni per evitare vincitori territorialmente definiti; 4) l’entità del “premio”. Ossia disegnare un sistema con due livelli di soglie, cosiddetto double complement rule

Al di là del dibattitto che verrà, la discussione sulle riforme è indispensabile: non solo sistema elettorale, ma anche Titolo V, ad esempio. Quel famoso cantiere riformatore deve essere riaperto proprio per le questioni rimaste in sospeso, mal modificate o bisognose di aggiustamenti.

È utile altresì osservare che la discesa in campo di Letta ha impresso una nuova dinamica “maggioritaria” al confronto politico tra i partiti e all’interno degli stessi. Le attuali forze politiche somigliano a una quadriglia bipolare. L’assetto del sistema partitico potrebbe svilupparsi proprio secondo lo schema “francese” ovviamente al netto delle differenze esistenti tra i contesti e astraendosi dalle valutazioni valoriali dei singoli attori politici. 

Il centro-sinistra pare riorganizzarsi attorno al duo PD-M5s. Il Partito democratico ha chiaramente abbandonato l’idea di essere condannato alla subalternità al Movimento 5 stelle. Le azioni del neosegretario hanno ristabilito un clima di fiducia e velato ottismo, in parte della volontà, e maggiore attivismo degli iscritti/elettori democratici troppo spesso trascurati, ma ancora desiderosi di partecipare. La prospettiva di una coalizione ampia, ma con al centro il PD che rilanci la vocazione maggioritaria, ossia l’obiettivo di essere guida perno e pivot riformista dello schieramento, contribuisce a ristabilire e ricomporre l’area di centro-sinistra.  

Dal canto suo il Movimento 5 stelle parrebbe infine attestarsi su posizioni meno populiste sebbene le acrobazie ideologiche e le oscillazioni politiche degli ultimi anni suggeriscono grande cautela e andrebbero verificate e testate. L’emergere di una classe dirigente rinnovata, pienamente europeista nei valori, nei comportamenti e nelle proposte, ancora non è del tutto all’orizzonte. In questo senso Giuseppe Conte potrebbe capitalizzare la recente esperienza a capo del Governo per imprimere un’accelerazione, tuttavia rimanendo cauto nelle procedure per evitare fughe massimaliste/movimentiste residue e in parte irriducibili. Alla coppia PD/M5s si contrappone stabilmente l’asse sovranistra di (estrema) destra Lega Nord e Fratelli d’Italia. Con il primo saldamente ancorato alle origini nordiste e il secondo alla ricerca di una identità nuova, combattutto tra revanchismo anni Settanta e neo-conservatorismo europeo. Gli equilibri politici ed elettorali nei due poli sono per ora stabili posto che il primato della Lega appare fragile e la contesa tra democratici e grillini è in fase preliminare. Insieme i quattro partiti cumulano circa l’80 per cento dei consensi, ossia la stragrande maggioranza della rappresentanza parlamentare. 

Ciascun polo sta ricomponendo la propria identità, l’equilibrio interno e la strutturazione politica e ideologica. L’intento di Letta di volere conferire e definire la leadership del campo progressista in base alla conta dei consensi tra PD e M5s va nella direzione di configurare una stabile alleanza che si confronta alle elezioni e successivamente converge in Parlamento. Il Partito democratico dovrà attingere dalle migliori energie intellettuali per declinare in proposte concrete, fattibili, attuabili e soprattutto condivisibili la prospettiva programmatica lanciata da Letta. “Progressista nei valori, riformista nel metodo, radicale nei comportamenti” è un ambizioso e lodevole manifesto politico. Contempla la lotta alla disuguaglianza, la parità di diritti e opportunità, l’etica e l’afflato riformatore. La costruzione di un solido partito che coniughi la spinta socialista e quella liberale per ridare fiducia, crescita e sviluppo al Paese. Il M5s, orfano del leader fondatore è piombato sulla realtà dopo l’ebbra esperienza sull’ottovolante populista e della finta democrazia diretta, ha la storica opportunità di convogliare le tante energie positive che il movimento contiene alla sua base, ma innervandolo di visione, di politica e di politiche coerenti con una società veramente aperta. E inclusa nella piena logica della democrazia rappresentativa, e non anti-sistema. 

Analoga dinamica di ristrutturazione si intravede tra amici/nemici Lega/FdI. 

I leghisti oscillano tra la malinconia salviniana per le ampolle del Po, e la rinnovata identità regional sovranista ben tutelata dal controllo del Mise, e la finta apertura europeista nella sostanza sempre orientata ad alleanze con il nazionalismo ungaro-polacco, non tanto differente da quello turco nella sostanza del rispetto dei diritti civili. Prima di sfidare l’alleato la Lega dovrà risolvere la questione della leadership perche Salvini non potrà convivere a lungo con il ruolo di “responsabile”. Questa circostanza rende FdI potenzialmente abile a superare i leghisti a patto che Giorgia Meloni rinnovi dalle fondamenta il partito, scommettendo sul ruolo all’interno del movimento conservatore europeo, mentre la strada dell’identità di (estrema) destra nazionale sarebbe di corto respiro e farebbe rimanere ai margini il partito, specialmente allorché la popolarità della leader iniziasse a eclissare. 

In questa dinamica bipolare i partiti minori dovranno aggregarsi o rimanere irrilevanti. 

Lo schema è duque segnato: alleanze pre-elettorali lungo l’asse sinistra/destra, competizione per la leadership interna e poi confronto nelle urne. L’adozione di un sistema elettorale maggioritario avrebbe effetti benefici e salutari sul sistema partitico italiano nel suo complesso. La competizione apparirebbe più chiara in termini di identificazione dei contendenti e della loro promessa di azione politica e legislativa futura. Di conseguenza anche il processo di accountability, di rendere conto ai cittadini/elettori, sarebbe rafforzato. La solidità dei governi, la loro stabilità, la corenza interna e l’operatività risulterebbero maggiormente tonificate. In un contesto in cui si sono avvicendati tre governi in tre anni con formule politiche letteralmente opposte. 

Gli elettori potranno sia esprimere un voto sincero/espressivo delle loro prime preferenze e anche sostenere il partito meno lontano dal loro sentire politico senza pertanto essere forzati. I partiti, soprattutto quelli estremi, sarebbero indotti a moderare il bagaglio ideologico per essere appetibili al secondo turno. Una sana dinamica bipolare sarebbe un bel colpo al populismo. 

La sindrome del tiranno

Editoriale per IL RIFORMISTA

La maledizione delle variabili. Nella politica italiana si sommano diversi fattori nel produrre inefficienza. La recente crisi di governo ha generato una distorsione ottica e quindi cognitiva con conseguente morbosa e inutile attenzione per il compartamento dei singoli attori. La fine dell’esecutivo Conte II è stata politicamente sancita dalle tensioni interne alla coalizione, ma in realtà le vere motivazioni rimandano a un dato strutturale. L’assenza di un assetto istituzionale ed elettorale coerenti ed adeguati a generare, o perlomeno favorire, una democrazia governante.
L’impianto istituzionale concepito nel 1948 è l’apogeo della stasi, l’esaltazione della negoziazione permanente e del ricatto costante, la proliferazione dei veto players perché ordito in un contesto – nazionale ed internazionale – di reciproca e mutua sfiducia tra due campi, e i rispettivi principali partiti. Nessuno dei quali doveva né poteva governare senza l’avallo, il controllo ossessivo della controparte. Cui si aggiunse la sindrome del tiranno, retaggio del passato fascista, la paura di un uomo solo al comando (che poi mai sia interamente così andrebbe tenuto in debita considerazione), il terrore per decisori e decisioni chiare.

L’instabilità dei governi è stata la cifra distintiva della Repubblica, sia nel primo periodo (durata media pari a undici mesi a fronte di immutabile personale ministeriale) che dopo il 1994 allorché si sono avute alternanze tra schieramenti opposti sebbene la longevità media sia aumentata punto o poco significativamente. La bi-polarizzazione, falsa e limitata nel tempo, è stata dovuta essenzialmente al fattore B., catalizzatore di giudizi dicotomici ad personam piuttosto che a visioni genuinamente alternative in base a piattaforme politiche e programmatiche. La tendenza all’indistinta melassa unificante e soffocante, mascherata a volte da Große Koalition, è emersa variamente negli ultimi vent’anni. Che solo apparentemente diviene ossimoro plebeo in coppia con il frazionismo guelfo-ghibellino dell’italico cor. Solo funzionale a celare e compensare l’incapacità per una sincera alterità ideale/ideologica costante e a far fronte ad una teatrale litigiosità inconcludente, in un Paese di “compaesani”.
La conflittualità all’interno delle coalizioni, la scarsa longevità dei governi, la proliferazione di micro formazioni partitiche pseudo personali, l’assenza di politiche pubbliche di ampio respiro e lungimiranti, la frammentazione, rimandano non al destino malizioso, ma a precise cause politiche ed istituzionali.
In Italia convivono due carenze, gravi. Un sistema elettorale debole e un sistema partitico ultra destrutturato. Nonostante, et pour cause, quattro principali riforme la procedura di trasformazione dei voti in seggi è congegnata per avere limitati o nulli effetti constrittivi e strutturanti. Analogamente, il sistema politico è privo di partiti solidi, nazionali, strutturati, organizzati territorialmente e in grado di produrre una proposta coerente a livello nazionale (per carità di patria sorvoliamo sul becero compartamento in materia di Covid di presidenti di regioni dello stesso colore politico). Il combinato disposto di sistema elettorale debole e sistema partitico non strutturato (anch’esso debole) paralizza la politica e come indica Giovanni Sartori non ha alcuna influenza. Risiede lì il motivo delle crisi.
Sul piano elettorale il concetto distorto di rappresentanza lascia spazio a nano-particelle che pure non rispecchiano nessuna reale frattura sociale, economica, politica. Biechi meccanismi autopromozionali per nulla migliorativi del rapporto elettore/eletto/territorio. Decine di piccole rane gracidano nello stagno, tutte con pari forza ostativa e vincolante. La morta gora.
In media (dal 1948) si hanno dieci partiti con seggi in parlamento, di cui solo metà con percentuali di voti maggiori del 4%. Il livello di frazionalizzazione è aumentato e la forza aggregante dei due principali partiti si è contratta: 79% di voti e seggi nel 1948, picco ancora nel 1976, ma punto minimo nel 2018 (52%). Aggiungiamo la media di nove gruppi parlamentari e di otto forze rilevanti.
La palude è permanente, i partiti senza forza nazionale. Pertanto, l’invocazione del messia, del salvatore, l’uomo della provvidenza, è la ciclica normalità. Insoddisfatta, ché politica e società sono complesse, per fortuna.
In questo contesto drammatico la decisione del Presidente del Consiglio dei Ministri Mario Draghi di non indicare un dicastero per le riforme appare decisamente poco adeguata. È esattamente il cantiere delle riforme che va ri-aperto, anche prima di quelli fisici, proprio perchè incomplete. Il processo riformatore non sia visto come le forche caudine, ma come l’opportunità, l’unica, per rimuovere all’origine le cause della stasi. Nel 1976 fu il PSI a varare la Grande Riforma, progetto coordinato da Giuliano Amato, in dialogo costante con le professionalità necessarie a produrre un cambiamento sistemico.
Una delle riforme puntava all’elezione diretta del Capo dello Stato, tema all’epoca tabù per miopia, para e scarsa conoscenza, e oggi nemmeno preso in considerazione. Sistemi a elezione popolare diretta non meno efficaci, effcienti e democratici di quelli parlamentari. Sarebbe d’uopo tornare a discuterne senza pregiudizi specialmente in vista della scadenza del mandato presidenziale anche per anticipare le vestali del ‘potere del popolo’ che lamenteranno discrasie tra la volontà popolare e la scelta del Palazzo. Il Parlamento discuta, senza timore per alcunché e senza autocensure preventive. I partiti propongano, magari partendo dal doppio turno di collegio.