Articolo per DOMANI
In principio fu il 1993. L’anno dei sindaci. Eletti “direttamente” dagli elettori, capaci di catalizzare la voglia di cambiamento dopo l’annus horribilis del 1992, con la svalutazione della Lira e l’uscita (con la Gran Bretagna) dal sistema monetario europeo, e molto, troppo, altro. L’elezione dei sindaci rappresentò anche la sede dove sperimentare nuove dinamiche politiche, alleanze, e strategie. La sinistra vinse quasi ovunque nelle grandi città, il centro politico era disorientato, e mise alle corde la destra estrema in cerca di legittimazione e di un padrino. Che puntualmente arrivò: alle porte di Bologna disse che se lui – Silvio Berlusconi da Arcore – fosse stato un elettore romano avrebbe sostenuto senza esitazione Gianfranco Fini, contro l’astro nascente Francesco Rutelli. Entrambi candidati alla guida della capitale d’Italia. Il quel momento nacque il centro-destra, il centro-sinistra arrivò più lentamente.
Il sistema elettorale maggioritario a doppio turno, meritoriamente richiamato da Enrico Letta quale prospettiva strategica per il PD, impose una dinamica bipolare e accrebbe la centralità dei capi coalizione, inducendo i partiti a operare una selezione più oculata dei candidati sindaco. Fu una vera primavera civica e politica. Rutelli, Massimo Cacciari, Leoluca Orlando, Antonio Bassolino – solo per citare i maggiori – rappresentarono uno slancio, il riscatto politico nel momento topico dell’antipolitica, del rigetto del primo sistema partitico della Repubblica, della presunta fine delle ideologie. I cittadini si identificavano con quei paladini del presidio repubblicano in un deserto di agenzie statali delegittimate, sventrate, mal gestite. Ancora oggi il Comune è l’istituzione cui gli italiani rimpongono maggiore fiducia, al quinto posto dopo il Capo dello Stato, le forze dell’ordine e la scuola (fonte: Demos, 2020). I sindaci sono il primo baluardo, e in molti casi l’unico, per la risoluzione di piccole e grandi questioni. Risposte a problematiche crescenti in quantità e qualità, sommersi di deleghe, competenze e responsabilità di fatto dinanzi a un crescente ritiro dello Stato e di territorialità, da sempre debole in Italia peraltro. I sindaci affrontano molte emergenze, ma senza risorse adeguate, né umane né organizzative, praticamente senza stipendio, senza emolumenti. Assimilati a una casta, peraltro inesistente, dal populismo antidemocratico emerso con il nulla intellettuale degli scorsi anni, ove chiunque si occupasse di “cosa pubblica” era messo alla gogna. Politici, persone, martoriate da una furia iconoclasta e abbandonati dai partiti. Emblematico il caso di Antonio Bassolino, politico puro, e ottimo sindaco, che ora rilancia la sua nuova romantica corsa verso Palazzo San Giacomo.
I sindaci rappresentano un tesoro sottoutilizzato, un capitale umano, politico ed elettorale che il centro-sinistra e il PD hanno lasciato fermo in banca. Andrebbero fatti investimenti per rendere produttive quelle risorse. E, ovviamente, non mi riferisco al dibattito interno al PD, che è recente. La questione è consolidata, per molti aspetti logorata.
Nei prossimi mesi si voterà, oltre che per il rinnovo del consiglio regionale in Calabria, in oltre mille comuni, tra cui sei capoluoghi di regione (Bologna, Milano, Torino, Napoli, Roma e Trieste) che fanno somigliare, mutatis mutandis, l’appuntamento autunnale a quello del 1993. Il centro-sinistra è ancora alla ricerca della sua identità, della capacità di proporre autorevolmente le sue idee al campo dei progressisti senza inseguire, assecondare, i populismi o gli estremisti. Partendo dall’agenda riformista, radicale nei principi e salda nei valori. Al centro di questa dinamica ovviamente dovrebbe esserci il PD, rinnovato in idee, programmi, persone. Attingendo proprio dalle centinaia di figure capaci, abili, quali i sindaci. Una vera e propria riserva repubblicana, che il partito pivotale del campo progressista non dovrebbe abbandonare. Andrebbero viceversa coltivati, allevati, quali nuovi futuri rappresentanti a ogni livello istituzionale e di governo. La gestione della res publica a livello locale è una fucina di politici, laddove si affinano le abilità di amministrazione, la conoscenza dei gangli della burocrazia, le inclinazioni negoziali, l’umiltà data dal rapporto con i cittadini, gli ultimi, i bisogni e le disuguaglianze. Investire massicciamente sulla formazione politica degli amministratori, coadiuvarli nella gestione non solo amministrativa, ma nella formazione continua. In questo la guida di Letta, e la sua esperienza alla guida della Scuola di politiche lasciano ben sperare. Anche l’enfasi posta sul partito territoriale, sui circoli, che ad alcuni potrebbe apparire demodé, in effetti rappresenta un investimento di medio-lungo periodo per 1) riattivare la base; 2) motivare gli elettori; 3) ampliare il consenso; 4) raccogliere risorse, umane e finanziarie, in vista delle future competizioni elettorali.
Sono decine le esperienze di buon governo e di amministratori capaci, riformisti. Dal primo cittadino di Bari, all’esperienza di Cagliari, da Reggio Calabria a Bologna, da Milano a Firenze, Bergamo e Latina. Ma anche le decine di sindaci di comuni “minori”, in un Paese con cinquemila comuni sotto i cinquemila abitanti, ossia il 70%. I comuni al centro di investimenti politici, istituzionali e di diritto ammnistrativo (la riforma del Titolo V), culturali e ovviamente di sostegno economico-finanziario. Le strutture della burocrazia comunale in molti casi sono esangui a causa dei tagli al personale, mentre in altri contesti la spinta locale è molto forte (in Francia esiste il ministero alla Città). Il Governo Draghi e il PD rimettano al centro i municipi e i loro cittadini.

I governi di minoranza sono comunemente, ed erroneamente, considerati un ossimoro, una bestemmia per la sacralità rituale del principio maggioritario, un’eccezione, necessità temporale. In Europa dal dopoguerra i governi rimasti in carica grazie al sostegno di una minoranza di parlamentari sono all’incirca un terzo del totale, con una dinamica analoga anche nella zona orientale post 1989. Tali esecutivi riescono non solo a durare, ma anche a produrre politiche pubbliche. Quanto i governi “maggioritari”.
Le maschere in antropologia servono per celare e disvelare, allo stesso tempo. Nascondono la vera identità di chi le indossa, e contemporaneamente indicano un messaggio altro. Tutelano le fattezze del mascherato ché altrimenti si violerebbe il tabù della segretezza, e rappresentano e identificano il soggetto che la maschera descrive e “contiene”. Uno sciamano, un giullare, un guerriero, un attore, un poeta, un religioso in talune processioni, una dama veneziana, una danzatrice malesiana, un defunto, un cantastorie… utilizzano una maschera nell’esercizio della loro funzione.
La divisione in blocchi contrapposti e sfere di influenza come definite a Yalta, la “cortina di ferro” delineata da W. Churchill, gli USA e l’URSS, il “bene” e il “male”, il diavolo, il nemico e l’imperitura lotta. In questo contesto l’Italia finì sotto l’egida dello Zio Sam, prodigo, generoso in beni materiali e immateriali, ma anche esigente e occhiuto su quanto si muovesse lungo lo Stivale. I Comunisti – la più grande forza dei paesi occidentali, che aveva lottato per la democrazia e stava scrivendo la Costituzione -, vennero esclusi dal Governo appena De Gasperi poggiò piede sul suolo patrio di ritorno dagli States nell’inverno del 1947; era il fio per il Piano Marshall, ma anche per la richiamata divisione in Blocchi.
“L’elettorato del Nord che è molto pragmatico e molto attento potrà seguire la Lega fino a un certo punto sul tema dell’immigrazione. Poi arriverà, forse prima di quanto si pensi, il momento in cui le imprese diranno con forza: guardate che con gli immigrati ci lavoriamo, vero che tra loro ci sono alcuni delinquenti, ma non possiamo affidarci per anni a chi ha in agenda un solo tema e lo usa ossessivamente non avendo altre proposte. È un elettorato pragmatico, che vede l’immigrazione come un problema da risolvere, ma non accetta che si parli solo di questo, mentre gli investimenti restano fermi e si spendono miliardi nel reddito di cittadinanza, che altro non è se non una mancia elettorale. Paradossalmente sarà proprio il Nord il punto dolente della Lega di Salvini”.
Professor Passarelli, lei vuol dire che proprio laddove trentacinque anni fa hanno preso a girare le ruote del Carroccio, mosse dall’idea politicamente geniale di Umberto Bossi, il suo successore indiretto ed erede non certo designato, in una sorta di nemesi, potrebbe avere i primi problemi?
Gianluca Passarelli è professore associato in Scienza Politica all’Università La Sapienza di Roma, ricercatore dell’Istituto Carlo Cattaneo e membro di Itanes, nei suoi studi si occupa di presidenti della Repubblica, partiti, sistemi elettorali, elezioni e comportamento di voto. È autore di numerosi saggi. L’ultimo, La Lega di Salvini. Estrema destra di governo (ed. Il Mulino), scritto con Dario Tuorto, uscito pochi mesi fa non è stato certo accolto bene dagli uomini del Capitano: un’interrogazione in Regione Emilia-Romagna e pure una in Parlamento dopo che il testo è stato consigliato nei corsi dell’ateneo di Bologna. Quella definizione di estrema destra è indigesta alla Lega che, piaccia o no, non è più da tempo quella di Bossi, uno che su fascismo e antifascismo aveva posizioni ed espressioni assai più nette rispetto a Salvini.
All’epoca a Silvio Berlusconi riuscì l’impresa: allearsi al Centro-Sud con Alleanza Nazionale, appena nata dalla svolta di Fiuggi, e al Nord con la Lega. Ma quella di Bossi era una posizione soltanto tattica, o lei non crede che quel marcare la sua distanza con la destra post-fascista fosse, diciamo, sincera?
E poi non poche figure di spicco della Lega, all’epoca, arrivavano da sinistra, addirittura dal Pci come Gipo Farassino o da esperienze e ideali autonomisti, come Roberto Gremmo con la sua Union Piemonteisa, idee che certo si rifacevano più alla Carta di Chivasso che a Ezra Pound. Lo stesso Roberto Maroni prima di incontrare l’Umberto stava addirittura in Democrazia Proletaria.
Per contro c’erano anche i Mario Borghezio che dopo aver risposto per anni a chi gli telefonava con un Pronto Padania Libera, nel 2014 va dal neofascista Stefano Delle Chiaie e gli dice: “Comandante, quando il nostro popolo sente il bisogno di una rivoluzione nazionale, noi dobbiamo metterci alla guida di questa rivoluzione. Questo è il compito anche tuo”. Significativo no?
Professore lei sembra mettere in contrasto il partito di Bossi rispetto al giudizio negativo su quello di Salvini. Era migliore quella Lega?
C’è, però, una parte di elettorato che ha abbandonato il Pd, dopo il successo del 2014 con Matteo Renzi, e che lascia giorno dopo giorno anche Forza Italia. Lei nel libro sostiene che quelli più a destra del partito di Berlusconi sono già migrati verso Salvini. Gli altri?
Restando in Piemonte, dove si andrà ai seggi tra poco più di un mese, uno dei problemi che neppure la dirigenza della Lega può negare è la scarsità di figure su cui contare per il probabile governo della Regione. Una penuria figlia di pesanti migrazioni verso il Parlamento e alla guida di città importanti. Lei non crede che questo sia indicativo anche di un cambiamento di un partito che per anni ha sfornato molti amministratori locali?
E il Nord?