Nemici per sempre. Amici miei

Editoriale per IL RIFORMISTA

«Amo così tanto la Germania da preferirne due». Una frase attribuita a Giulio Andreotti, sette volte Presidente del Consiglio, deputato dalla Costituente, più volte ministro. E tanto altro. In realtà si tratta di un quasi falso storico ché a pronunciarla fu il premio Nobel per la letteratura François Mauriac: «Amo talmente la Germania che sono proprio contento ce ne siano due». Al di là del diritto di attribuzione, della diversa finezza linguistica e della proprietà intellettuale contano la provata scaltrezza politica e l’abilità di tattico del Divo. Andreotti in quella frase e nel concetto contenuto intravedeva e delineava l’intero piano del realismo politico democristiano, fornitore della sua condizione di privilegio e posizione di intoccabilità e non contendibilità.

La divisione in blocchi contrapposti e sfere di influenza come definite a Yalta, la “cortina di ferro” delineata da W. Churchill, gli USA e l’URSS, il “bene” e il “male”, il diavolo, il nemico e l’imperitura lotta. In questo contesto l’Italia finì sotto l’egida dello Zio Sam, prodigo, generoso in beni materiali e immateriali, ma anche esigente e occhiuto su quanto si muovesse lungo lo Stivale. I Comunisti – la più grande forza dei paesi occidentali, che aveva lottato per la democrazia e stava scrivendo la Costituzione -, vennero esclusi dal Governo appena De Gasperi poggiò piede sul suolo patrio di ritorno dagli States nell’inverno del 1947; era il fio per il Piano Marshall, ma anche per la richiamata divisione in Blocchi.

La conventio ad excludendum inoltre scartava qualsiasi possibilità di accesso al governo delle “sinistre” nonché, ovviamente, dei post-fascisti che non avevano nemmeno votato per la Costituzione. Il sistema partitico era bloccato, e l’alternanza era “impraticabile” (Giovanni Sartori) stante la distanza ideologica tra PCI e DC. In sedicesimo l’Italia riproduceva, ed esasperava le dinamiche avversariali tra “Nato e Patto di Varsavia”. La logica del “nemico alle porte” era funzionale alla permanenza al potere della Democrazia cristiana, una assicurazione sulla vita (politica) che Andreotti, e non solo, intuì bene e presto. In assenza di alternative praticabili rimane solo un attore in grado di governare. Ma, attenzione, resta legittimato anche un solo (o poco più) partito capace di opporsi. La dualità amico/nemico, elemento base della politica come insegna Carl Schmitt, in Italia trova l’acme durante tutta la fase democratica. Dopo il 1989/1991, con la fine delle celebri Due Germanie, al fattore K si sostituì, a parti politiche invertite, il fattore B-erlusconi. Il piduista – è storia -, il pluri-indagato, l’amico di Bettino Craxi, il datore di lavoro di un mafioso, l’imprenditore rampante, fai da te (fino a un certo punto), il donnaiolo incallito, l’alleato dei post-fascisti, il liberalizzatore, il gaffeur, l’amico dei Conservatori, il proprietario di molte (troppe) tv, adulatore delle masse e delle massaie, cantore dell’evasione fiscale, se “giusta”. Il Caimano, e altri epiteti irripetibili. Reo di avere distrutto i sogni di gloria dell’«allegra macchina da guerra progressista», in realtà già nata sgangherata e con poca capacità di capire il nuovo contesto politico e sociale del 1994.

Che Berlusconi fosse, e sia stato, un personaggio politico con una agenda politica non proprio “progressista” e per certi punti persino perniciosa, a me pare(va) evidente. Che l’uomo fosse spregiudicato è lapalissiano. Il punto politico rimanda però all’attualità, al realismo. Al cambiamento radicale del sistema politico e partitico avvenuto tra il 2011 e il 2019. Si sono succedute tutte le possibili combinazioni di alleanze, coalizioni, tipi di governo che un intero manuale di scienza politica quasi non basterebbe. Rimane però lo stigma del fattore B, nonostante, appunto, il PD, la Lega Nord, Fratelli d’Italia i vari “centristi” abbiano contratto alleanze con Lui senza quasi alcun problema. Quale, dunque, il motivo di tanta acrimonia, al netto delle diversità politiche e del CV del Cavaliere non proprio da studente di Oxford? Una sorta di nuova conventio ad excludendum. Del resto, l’anti-B ha funzionato come garanzia, per molti. La dicotomia tra quelli de “meno male che Silvio c’è” e lo stucchevole anticomunismo urlato da Berlusconi hanno consentito di non rinnovare la classe dirigente della Sinistra, almeno, e in parte, fino alla “rottamazione”, e alla Destra di rimanere incagliata tra nostalgie novecentesche e sogni di liberalismo illusi dalle trame di potere di un uomo solo al comando. È un vantaggio inneggiare, sì inneggiare, all’anti-B in funzione andreottiana, ossia per rimanere saldi al comando che tanto “il popolo impaurito seguirà”. E infatti seguiva, ma poi stanco ha voltato le spalle. E chissà per quanto. Walter Veltroni nel 2008 provò a “normalizzare” il PD, ma anche i rapporti con il principale esponente dello schieramento a noi avverso, non definito appunto “nemico”. Fu un profluvio di accuse, e di ritorno al partito “vero”.

 

 

 

 

 

La cronaca recente racconta di avvicinamenti, di sostegno parlamentare di pezzi di Forza Italia alla manovra di bilancio, mentre altri in ossequio al trasformismo lasciano per seguire la Lega Nord. Se la decisione di votare insieme alla maggioranza fosse presa alla luce del sole, con motivazioni argomentate e, dunque, falsificabili, non credo staremmo allo scandalo. Viceversa, se si trattasse di trame oscure, andrebbero stanate dalle opposizioni e dalla stampa. I partiti decidano assumendosi le conseguenti responsabilità davanti al Parlamento e al Paese. Il quale non è ancora “normale”. Il dualismo amico/nemico ha superato i livelli di guardia, il populismo ha avvelenato i pozzi del vivere comune. La destra e la sinistra non hanno modernizzato la loro visione e la loro agenda, mentre i populisti faticano a decifrare la realtà politica nazionale e internazionale. Una parte della sinistra e una componente ampia del populismo di vario lignaggio rischiano di rimanere in cerca d’autore senza IL nemico. Senza il quale si prosciugherebbero le colonne di interi editoriali(sti), fortune politiche scomparirebbero. Nulla di indecente, ma è importante saperlo.

E se invece di accusare di “tradimento” si parlasse del merito, delle proposte per la crisi economica, sanitaria, culturale, ambientale, in una fase storica diversa e tragica per il Paese? Sarebbe più complicato e ciascuno dovrebbe mostrare cosa sa dire/fare. Meglio, più redditizio “amare così tanto Berlusconi da preferire ce ne siano due”.

Unità nazionale? Meglio il neo-corporativismo

Unità nazionale? Meglio il neo-corporativismo
editoriale per IL RIFORMISTA (24/06/2020) 

Il “governo di unità nazionale” è stato per un po’ di tempo una delle opzioni per la costruzione di un governo stabile, autorevole e in grado di portare a compimento il processo riformatore necessario in diversi settori economici e sociali.

Il refrain “è necessario un governo di unità nazionale” è stato presente sin dal 2018. Il risultato delle elezioni politiche ha generato un’alleanza parlamentare che per quanto fosse preannunciata e pianificata dai negoziatori di Lega (Nord) e Movimento 5 stelle è stata manifestamente una forzatura, almeno per una componente del gruppo “grillino”, sebbene il resto del partito si sia rapidamente e solidamente adeguato allo schema governativo. Le intemperanze del sen. Matteo Salvini, incapace di governare l’entusiasmo per l’accesso al potere ministeriale, e i disastri generati con la gestione dell’ordine pubblico e del flusso dei migranti hanno fatto il resto. La nomina del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte è stata dunque il punto di mediazione tra Lega (Nord) e M5s, reciprocamente sospettosi durante le estenuanti settimane di negoziazione egregiamente e saggiamente guidate dal Presidente della Repubblica. La disfatta di Salvini e l’operazione del PD influenzato dal timore di molti suoi parlamentari di perdere (per sempre) lo scranno e l’intervento di Matteo Renzi (o la Mossa del cavallo, se preferite) hanno spodestato la Lega dal governo in una normale logica parlamentare. E ancora una volta è emersa la tentazione o il tentativo di avere un governo tecnico, con meno chances di successo rispetto al passato posto che le posizioni di Lega (Nord) e PD erano assai distanti.

Tuttavia, è necessario chiarire che cosa si intenda con unità nazionale. Il riferimento è a fasi eccezionali in cui le forze parlamentari si uniscono sostenendo una formazione di governo unitaria, condivisa. L’opposizione decide cioè di contribuire alla creazione di un governo, sostenendolo in parlamento (ovvero non ostacolandone la nascita con l’astensione, ad esempio), entrando a far parte della compagine esecutiva, o fornendo solo l’appoggio parlamentare (cosiddetto sostegno esterno) senza avere rappresentanza ministeriale. In periodi eccezionali, e tendenzialmente brevi, ovvero limitati al periodo della crisi, tutti i partiti sostengono un governo unitario appunto.

Il “governo nazionale” è però diverso, concettualmente ed empiricamente, dalla Grande coalizione, con cui spesso viene confuso.

Il governo di unità nazionale si differenza dalla Grande coalizione nella qualità del sostegno parlamentare (tutti i partiti nel primo caso, i due più grandi dei rispettivi schieramenti nel secondo), e per le finalità che lo producono. Le Grandi coalizioni rispondono ad impasse parlamentari dovute a frammentazione partitica e/o eccessiva distanza ideologica e si basa su un programma politicamente condiviso, mentre l’”unità nazionale” si ha quando il Paese affronta una situazione extra ordinaria, come una guerra, e l’obiettivo risiede nel superare l’evento che ne è causa stessa.

Esistono celebri casi di Grandi coalizioni, ad esempio in Germania (1966-69; 2005-09; dal 2013), in Austria (per ragioni storiche sociali) o anche in Portogallo (1983-1985), sebbene con dovute differenze. Il governo britannico guidato da W. Churchill tra il 1940 e il 195 ben rappresenta invece l’eccezionalità della national unity in periodo di emergenza.

In Italia ci sono esempi per entrambe le categorie. La Grande coalizione si è avuta tra il 1995-1996 con il Governo Dini, tra 2011-2013 con l’alleanza PD-PDL, e in qualche misura, mutatis mutandis, dal 2019 con l’asse PD-M5s.

L’unità nazionale si è avuta tra il 1943-1947 allorché i partiti antifascisti governarono insieme, per gestire la “guerra civile”/Resistenza, la transizione democratica e il varo della Costituzione, prima nel CLN e poi nei primi governi democratici, fino al ritorno di Alcide De Gasperi dagli Stati Uniti e all’estromissione del Partito comunista. Di nuovo nel 1978-1979 per fronteggiare l’emergenza terroristica con governo a guida democristiana, ma sostenuto (esternamente) dal PCI.

Affinché si abbia un governo di unità nazionale devono verificarsi alcune condizioni esogene ed endogene. Il sistema deve essere interessato da una “crisi”, come ad esempio una guerra o una forte pressione sull’ordine sociale e la convivenza civile. Ma gli ingredienti più difficili da reperire sul mercato fanno riferimento alla leadership. La presenza di un politico che sia legittimato, autorevole, carismatico, competente tanto da essere sostenuto non solo dalla propria forza o campo politico, ma accettato bon gré mal gré anche dalle opposizioni, va coniugata con la finalità che deve essere esplicitata e condivisa dalle forze politiche. Infine, gli esponenti dei principali partiti devono dimostrare capacità di superare le distanze ideologiche e, sebbene per un tempo limitato, convergere sul capo del governo designato al fine di perseguire il “bene comune”.

Recentemente le fibrillazioni e le incertezze del Governo Conte II e le tragiche conseguenze del COVID-19 hanno indotto molti, a livello istituzionale, partitico e sociale, a far riferimento all’unità nazionale. Il nome speso in questa prospettiva è stato quello del dott. Mario Draghi che certamente avrebbe avuto i galloni per governare la pandemia, ma la faziosità dei gruppi parlamentari ha fatto sfumare questa opzione. Non mi pare esistano le condizioni soprattutto per carenza di cultura e di statura politica, e in particolare stante la poca propensione della destra del duo Salvini-Meloni che sembra tristemente avviata e avvitata verso l’auto-isolamento e il radicalismo ideologico e politico.

Pertanto, in periodo extra-emergenziale rimarrebbe l’opzione neo-corporativa. Gli attori principali coinvolti sarebbero tre: Governo, imprenditori e sindacato. Per percorrere questa strada questi gruppi, cui aggiungere i partiti, dovrebbero essere (più) coesi, stabili e disposti a dialogare e a con-cedere parte del loro “interesse” al fine di realizzare accordi di rilevanza collettiva. Ma la salute politica di questi attori in Italia è deprimente e dunque una politica progressista e riformista, per i salari, l’innovazione industriale e i diritti dei lavoratori pare lontana.

L’esecutivo sembra scontare una carenza di proposte, di visione, di ideologia (di “linea” come ha detto il segretario del PD Zingaretti) le politiche approvate sono di corto respiro in una fase “eccezionale” che urge disegno e orizzonti ampi e “rivoluzionari”.

Le organizzazioni sindacali nel complesso latitano in cerca di autorevolezza e proposte, spesso arroccate in difese conservatrici, e lontane da una visione moderna del lavoro, della società. Infine, le associazioni imprenditoriali, e Confindustria in testa, appaiono attardate in difese di posizioni, privilegi e rendite. Le prime sortite del neopresidente degli industriali non lasciano ben sperare e anzi marcano il campo per una stagione regressiva sui diritti dei lavoratori, quasi che gli imprenditori fossero stati bistrattati dalla Repubblica e dai suoi governi negli ultimi cinquanta anni. Assenza di cultura imprenditoriale e di senso della Comunità, oltre che di rispetto della Carta costituzionale.

Rimangono l’Unione europea che con la sua semplice esistenza oltre che con la dose massiccia di fondi erogata ha contribuito a salvare molti Stati, e certamente l’Italia, e il Presidente Mattarella che il 2 giugno scorso ha invocato lo spirito unitario del 1946, e nella fase (post) pandemica ha ricordato l’impegno istituzionale «all’altezza di quel dolore, di quella speranza, di quel bisogno di fiducia». E, ha aggiunto «non si tratta di immaginare di sospendere o annullare la normale dialettica politica. La democrazia vive e si alimenta di confronto fra posizioni diverse». Messaggio chiaro. Silenzio dall’altra parte.