Dove è finita la Lega nazionale? Salvini senza partito

Editoriale per IL RIFORMISTA

Lega nazionale. Così la definirono. Solerti commentatori privi di conoscenze politologiche, giornalisti pigri alla ricerca di titoli e ricercatori senza dati. I quali continuavano a dire instancabili che la Lega Nord, seppure guidata da Matteo Salvini, non aveva affatto mutato la sua natura. Suonava bene però quel “nazionale” e assopiva lo spirito calmierando eventuali residui rigurgiti repubblicani ché proprio non era sostenibile avere un partito di estrema destra, come la Lega di Salvini, al Governo del Paese. Nel cuore dell’Europa di cui siamo fondatori. Adagiare con delicatezza una verniciata di colore, metaforico, culturale e cromatico, viceversa pareva potesse allontanare il lezzo del razzismo, della xenofobia, della tracotanza, del maschilismo e della violenza verbale.  E accontentare le esigenti virtù democratiche, tacitandole, dandole in pasto un tricolore a lungo vilipeso e usato solo per becera propaganda antirepubblicana. Una furia iconoclasta rivolta contro i princìpi costituzionali, ma distillati in vaneggiato e autocelebrativo senso comune, ossia l’abiura della ragione. Anche gli incalliti democratici dovevano rassegnarsi alla Lega ormai faro del populismo democratico, una specie di ossimoro farneticato del resto solo dai pasdaran del grillismo. E i partiti dell’opposizione, la Sinistra smarrita e in permanente ricerca di identità e personalità, si adagiò, quasi si accasciò, pretendendo di combattere i “barbari sognanti” con un buon senso colorato di generosa solidarietà.

Quel “nazionale” aggiunto sfrontatamente al termine “Lega” si trasformò nello spazio di un mattino in nazionalismo, in rivendicazione di una identità escludente ed esclusiva il cui pilastro è l’annichilimento o l’assoggettamento di tutte le diversità.

Ormai avvezzi all’errore di analisi, giunge inattesa (?) la presunta inversione di rotta della Lega Nord per come propagata, propugnata e raccontata da temerari affabulatori sedicenti imitatori dei narratori di fiabe nordiche. Il senatore Matteo Salvini, eletto per caso a Locri e poi sempre per caso in Lazio, non ha effettuato nessun cambiamento di rotta. Semmai, il capo pro tempore della Lega Nord ha subito tale scelta. È l’esecutore materiale, il prestanome, di una scelta compiuta altrove e da altri. Non un complotto, ma semplicemente il compimento di un processo di esautoramento del senatore milanese da tempo isolato nel partito. Che non controlla da mesi, e al cui interno fazioni opposte mal sopportavano quella sua temeraria azione di “nazionalizzazione”. Mal si conciliava con il cuore nordista della Lega Nord, che da sempre lavora per una sola parte del Paese, e per una sola componente del nord. Un partito regionalista, regionale, e di estrema destra.

La crisi del Governo Conte II ha fornito il casus belli per risolvere la tormentata vicenda di una leadership ormai deposta de facto. Il senatore Salvini è candidato ad essere ormai ex di sé stesso. Se non giudicassimo la politica con la politica farebbe quasi pena vederlo trascinato fuori dall’agone politico, senza seguito, senza voti, senza partito, senza progetti, ma disposto ad eseguire qualsiasi diktat pur di rimanere formalmente in sella (finché lo decideranno Zaia, Giorgetti o chi per loro).

Nella storia leghista i cambiamenti di rotta sono frequenti. Si tratta di un partito governista che mira a gestire a livello nazionale e che (mal) governa in varie regioni e comuni. Attitudine incentivata dalla possibilità di incidere, con scelte liberiste sul pingue bilancio a disposizione del governo nazionale. La differenza consta nel càrisma. Nel caso di Umberto Bossi questi poteva decidere di allearsi con Berlusconi o contro di lui, di attaccare l’Unione europea, o esaltare l’Europa delle regioni, di deprecare i comportamenti dei vescovi o ergersi a paladino della cristianità. L’intendenza avrebbe seguito ed eseguito perché era il capo, indiscutibile. Il senatore Salvini viceversa non ha càrisma (non è una colpa) e soprattutto il partito non lo segue. E infatti verrà decimato nel suo consenso. Soprattutto, non si intravede alcuna revisione ideologica, nessuno scisma. I gesti sono importanti e avere ammesso a mezza voce che l’Unione europea non è un covo di criminali è un passo avanti, ma non mi pare possa essere sufficiente. La Lega Nord versione 4.0 dovrebbe abiurare le politiche migratorie promosse, il razzismo, abbandonare il gruppo di partiti di estrema destra nel parlamento europeo, e rivedere le posizioni sul Sud. Su cui il passaggio alla “lega nazionale” ricorda il veloce processo di rimozione che in queste ore si consuma sull’Unione europea. Salvini è un leader senza patria. E il “suo” nord presenterà un conto amaro qualora non riuscisse a tenere la barra della gestione del Recovery Fund sufficientemente tesa verso le valli prealpine e prona ai desiderata di Confindustria. Il nascente Governo Draghi ha effettivamente inciso sulla scelta del gruppo dirigente leghista, esacerbando le contraddizioni tra l’idealismo movimentista e ribellista del senatore del Lazio e il pragmatismo industrialista dei quadri, accentuando una virata radicale. I mesi prossimi segneranno la prova del fuoco, ma il punto nodale è che Salvini non è l’artefice di tale intrapresa.

La faccenda dell’autenticità del cambiamento è dunque mal posta: il partito ha mutato tattica, essendo da sempre camaleontico quanto a mezzi ma tetragono sui fini. I gesti più compassati dei consiglieri leghisti sono funzionali a completare il disegno di disgregazione nazionale indirizzando risorse prevalentemente al nord, con la complicità talvolta di progressisti che declamano “regionalismo” e autonomia differenziata. I tutor del segretario reggente, i maggiorenti del partito sono la faccia nascosta della Luna leghista che mina le basi repubblicane, la quinta colonna per entrare a Palazzo Chigi essendo il senatore Salvini giustamente inviso all’intero mondo diplomatico.

La Lega Nord era e rimane tale. Anche se stavolta (un po’ più) educatamente.

Non Conte o Renzi. Italia, chiamò.

Editoriale per IL RIFORMISTA

La leadership la fanno il testo e il contesto. I vincoli e le opportunità formali, ma anche le condizioni date, nonché, evidentemente, i caratteri individuali. Inforcare le lenti della razionalità è poco o punto utile, non aiuta a comprendere, tantomeno a spiegare la crisi politica in corso. Ciascuno tra gli attori in gioco ha un proprio set di idiosincrasie, tattiche, strategie, fisime, ambizioni, vizi e virtù. A volte compatibili, altre non riducibili a sintesi. Tentare di ricondurre ad unum la molteplicità secondo schemi “logici” non giova, e soprattutto non è possibile. I protagonisti della crisi si muovono secondo schemi dettati da agende personali e di parte, “testa e cuore”, “lacrime e sangue”, “sangue e …”. La dovizia di dettagli di cronaca fa perdere lo sguardo lungo. Per cui meglio non indugiare su singole dichiarazioni di taluno. Esistono vincoli istituzionali, nazionali e internazionali ben più ampi, stringenti e di lungo periodo. L’Italia, Paese fondatore dell’Unione europea, membro della Nato, non puo’ agire come se fosse sganciata da legami storici, culturali, economici/finanziari, militari ed istituzionali con il mondo circostante. Di cui è parte integrante e in alcuni casi anche componente essenziale, come l’Europa. La quale, in quanto organizzazione sovranazionale con sogni e aspirazioni federalisti, non puo’ permettersi che un Paese cruciale come l’Italia sia in crisi. Non, evidentemente, in termini di legittima e libera competizione tra i partiti, di equilibrio tra poteri e cambio di maggioranze, di scontro tra leader di partito, o di sovranità parlamentare. Quanto in riferimento a una crisi sistemica verso cui il Paese si sta avviando. A prescindere da chi sia alla guida nella congiuntura. L’Europa, e l’ambiente internazionale, per quanto biasimati da una mentalità politica prevalentemente provinciale e avventata, rappresentano l’àncora di salvataggio dell’Italia.

I principii, le regole – quelle scritte e le prassi -, i rapporti di forza, gli interessi nazionali, i patti siglati e quelli da concludere, i negoziati e le trattative. Un insieme, una fitta rete di relazioni che pongono l’Italia in un contesto ben più ampio di una conferenza stampa o di una passeggiata a favore di telecamera.

Lo status, il prestigio del nostro Paese sono stati faticosamente costruiti sulla reputazione, la capacità di portare a termine il compito assegnato, di rispettare le regole. E all’estero, bon gré mal gré, a torto e a ragione, in taluni ambienti l’immagine del made in Italy politico è ancora piuttosto fragile. Ricordiamo che fu solo grazie ad Azeglio Ciampi che i tedeschi accettarono di includere l’Italia nel club Euro ché mal celavano sfiducia verso il complesso del sistema Paese. I galloni si guadagnano sul campo, e non dipendono soltanto dalla presenza di ministri credibili (e qualcuno andrebbe defenestrato ad horas), ma dalla capacità di rispondere ai problemi seriamente ed efficacemente. Gli americani la chiamano delivery.

Il Presidente del Consiglio dei Ministri, in quanto tale, ha il dovere, l’onere e persino l’onore di condurre il Governo, e di “dirigerne” la politica (art. 95 della Costituzione), ma è anche dinanzi alla sfida politica di tenere insieme la coalizione. Al di là dei punti di vista individuali e di tutte le posizioni e le mutue critiche legittime, è il capo del governo a dovere tenere unita la maggioranza, con l’ausilio dei partiti e dei loro leader. Più o meno simpatici, avventati, improvvidi, lungimiranti, scontati, coraggiosi, pavidi, tattici o strateghi, ciascuno li reputi a seconda delle sintonie politiche. E procedere ad azioni congruenti. Vero che la situazione è grave, inusitata, inedita, eccezionale, ma su taluni passaggi non potrebbe tacere nemmeno il più fervido, fervente sostenitore acritico. Le scuole e le università andrebbero riaperte, con criteri e in sicurezza, al più presto. Per esempio. Senza indugi.

L’arrocco di Matteo Renzi, dopo la “mossa del cavallo”, è difficile da decifrare per quanto detto sin ora in termini di limiti di “testo e di contesto”, di umane fragilità e in-compatibilità. Nel merito il senatore Renzi ha proposto, e in parte ottenuto, modifiche ragionevoli, sensate e assai utili sulla gestione del Recovery Fund; avrebbe forse potuto entrare nell’esecutivo occupando un dicastero prestigioso e da lì fustigare. Analogamente, il Partito democratico pare avere maturato la convinzione di dover virare su un’azione maggiormente riformatrice, decisiva, visibile, concreta, votata all’uguaglianza, agli investimenti e meno alla distribuzione, alla prospettiva di lungo periodo. Tutte azioni nelle corde, nelle idee e nella storia del PD che quindi ha il dovere di metterle in pratica. Senza tergiversare oltre ovvero dire che tutto sommato molto è stato fatto. Il Paese aspetta e merita di più. E in questo ancora una volta l’Europa come contesto in cui far valere il nostro peso e incidere sulle decisioni, cogliendo le occasioni per crescere, quasi da essa fossimo condannati al successo (come titolava un volume curato tra gli altri da Sergio Fabbrini).

Non sarà una crisi breve. La prospettiva di una lunga azione di trincea però genera foschi scenari con posizionamenti continui, perdite complessive per ambo le parti ed esanime, esangue il Paese. La fantasia politica italiana può giovare per scovare una soluzione, ma i tempi lenti degli anni Ottanta sono superati. Appoggio esterno, appoggio “estero”, governo “balneare”, governo dell’astensione, o della distensione… Governo Conte, governo Conte con/senza Renzi… Tutto tranne maggioranze abborracciate, improvvisate, patchwork parlamentari, non espressione di forze politiche, sociali, ma aggregazioni, di singoli feudatari. Siamo pur sempre il Paese del trasformismo, ma c’è un limite: la decenza.

Ancora una volta, l’ennesima, il Presidente della Repubblica, ha pazientemente tessuto le relazioni con i gruppi parlamentari, persuaso, ammonito, richiamato, ed ha assicurato che i piani economici fossero messi al riparo dalle intemperanze politiche e partitiche. Mattarella, che come sappiamo sarà in carica fino a febbraio 2022, ha anche invitato a lavorare uniti, il che non vuol dire che le forze politiche debbano insieme, tutte, sostenere lo stesso governo senza distinzione alcuna. Il varo del Conte ter non elude un prolungato negoziato, fuori e dentro il Parlamento. Per certi versi è un bene.

L’Italia però deve accelerare su vari fronti. Per molti aspetti la classe dirigente (non solo quella politica) appare sfalsata, sfasata, distonica rispetto alla popolazione. Il che ovviamente non implica seguire gli umori del volgo, come predica certo populismo. Ma la Democrazia cammina solida se tutte le parti sono incluse nel processo. La crisi, non quella di Governo, o quella parlamentare, ma quella sistemica è dietro l’angolo e potrebbe travolgere le istituzioni in un ben prevedibile collasso democratico. Ma, appunto, esistono i vincoli formali e congiunturali che reggono il corpo barcollante del Paese. Per poco ancora.

Il Sommo, scomparso settecento anni fa, si doleva del destino italico, sociale e politico. Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di provincie, ma bordello!» Usciamo dal Purgatorio.

Semestre bianco. Fifa nera.

Editoriale per DOMANI

Il Presidente della Repubblica in Italia dispone di alcuni importanti poteri che investono vari ambiti, tra cui quello di sciogliere “le Camere o anche una sola di esse”. Nell’esercizio di questa funzione interpella i Presidenti delle Camere, sebbene questo passaggio non sia in alcun modo vincolante per il Presidente. In capo al quale risiede l’intera responsabilità, e dunque la pienezza della decisione. In particolare, l’art. 88 della Costituzione prevede che il Capo dello Stato non possa esercitare tale potere nel periodo che segna l’ultimo semestre del suo mandato, a meno che questo periodo non coincida, anche solo in parte, con gli ultimi sei mesi di legislatura. Questa eccezione è stata introdotta con riforma costituzionale nel 1991 per far fronte alla peculiarità della presidenza di Francesco Cossiga la cui durata terminava con la coincidente scadenza della legislatura. Un incastro paradossale poiché il Presidente non avrebbe potuto sciogliere né le Camere avrebbero potuto eleggere il nuovo Capo dello Stato secondo quanto previsto dall’art. 85. Oggi non ci troviamo nella condizione della scadenza sovrapposta tra le due istituzioni – la legislatura scade nel marzo del 2023 -, e ne deriva che alla fine del prossimo mese di luglio inizierà il c.d. “semestre bianco”, durante il quale, appunto, le Camere non potranno essere sciolte anticipatamente.

La logica intrinseca di questa limitazione temporale, presente anche in altri ordinamenti (Portogallo, ad esempio, sebbene in un sistema semi-presidenziale), risiede nella volontà di evitare che il Capo dello Stato pro tempore proceda allo scioglimento a ridosso della fine del proprio mandato con l’intento di dilazionare l’elezione del successore ovvero di esautorare un parlamento che egli considera ostile alla eventuale sua rielezione. Va sottolineato che l’atto di scioglimento, al pari degli atri provvedimenti presidenziali, deve essere controfirmato, in questo caso dal Presidente del Consiglio dei Ministri. E nel caso questi rifiutasse di controfirmare, il Presidente dovrebbe rinunciare allo scioglimento ovvero adire la Corte costituzionale per conflitto di attribuzioni. Scenari articolati, in cui le prerogative non sono mai state chiarite tanto che si parla di atti duumvirali (si veda Carlo Fusaro, Il presidente della Repubblica, Il Mulino).

Alcuni casi storici rendono l’idea di quale sia stato il comportamento del Presidente nel “semestre bianco”. Giovanni Leone si dimise due settimane prima che iniziasse l’ultimo semestre da inquilino del Quirinale a causa delle accuse di illeciti, risultate poi infondate, e dal mancato sostegno dei partiti “costituzionali”.

Il Presidente Ciampi, unico caso “limite”, durante il semestre bianco procedette allo scioglimento anticipato delle Camere (come da nuova norma del 1991), seppure di soli due mesi, ma si trattò di mere ragioni tecniche ché la legislatura era ormai esaurita. Giorgio Napolitano rassegnò le dimissioni durante il “semestre bianco” per eleggere il suo successore, che fu poi egli stesso sebbene per soli due anni. Il caso più eclatante rimane quello di Antonio Segni che nel celebre messaggio alle Camere del 1963 avanzò l’idea di abolire il “semestre bianco”, e di conseguenza la non immediata rieleggibilità del Presidente.

Come giustamente segnala il costituzionalista Stefano Ceccanti, gli scioglimenti (la prima volta fu nel 1972) durante il primo sistema partitico (1948-’93) avvenivano di concentro tra i partiti della maggioranza non essendo possibile l’alternanza. Nella fase bipolare (1994-2013), seppur con sfumature, gli assetti partitici erano abbastanza chiari e, dunque, l’intervento presidenziale era poco incisivo. Il deterrente dello scioglimento anticipato funziona invece nell’attuale periodo di destrutturazione del sistema partitico che senza il potenziale della frusta presidenziale cadrebbe nel caos.

Prima che inizi formalmente il “semestre bianco” della presidenza Mattarella rimane uno spazio per l’ultima occasione utile a disarcionare il Governo in carica ed eventualmente confidare nello scioglimento anticipato del Parlamento in assenza di maggioranze in grado di sostenerne uno alternativo. L’approvazione della legge di Bilancio è l’ultimo vero scoglio, insieme ovviamente alle intense trattative per il Recovery Fund e la sua gestione. Rimpasti annessi. Se consideriamo i due mesi che debbono intercorrere tra lo scioglimento eventuale e gli aspetti tecnici, l’incipiente primavera potrebbe stimolare gli ultimi appetiti di elezioni. Ma vanno considerate, ovviamente, anche la pandemia, la dinamica europea, la presidenza del G20, etc. L’attuale Parlamento ha dunque poche settimane per decidere di auto-condannarsi alla fine anticipata. Nel caso, assai probabile, entro fino luglio non succedesse nulla, gli scenari politici sarebbero di due tipi. Nel primo, aumenterebbe la conflittualità all’interno della maggioranza, con il rischio di perdita di efficacia decisionale, con comportamenti al rialzo garantiti dall’impossibilità di chiudere la legislatura e quindi di pagare dazio elettorale. Anche l’opposizione sarebbe interessata a tenere alto il livello della tensione sicura di non rischiare, ma anzi preparando la campagna elettorale. La palude sarebbe lo sfondo, con crisi di governo, conflitto e stasi decisionale fino a febbraio 2023. La seconda prospettiva, opposta, potrebbe aprire le porte a una collaborazione più intensa nella maggioranza per capitalizzare l’azione di governo e condurre in porto le politiche avviate.

Il Presidente della Repubblica durante il “semestre bianco” non è in esercizio limitato o dimezzato delle sue prerogative, che sono varie, e significative, per nulla formali. Sergio Mattarella eletto il 31 gennaio ed entrato in carica il 3 febbraio del 2015, anche dopo il luglio 2021, garantirà il pieno esercizio della funzione presidenziale, affatto esautorata, tranne appunto per lo scioglimento. Spetta ai partiti politici, di maggioranza e opposizione, al Governo, e alle altre articolazioni dello Stato, condurre con “disciplina ed onore” il loro mandato fino in fondo, garantendo il fondamentale equilibrio dei poteri. Senza il tutore politico e istituzionale lo scenario di una perenne instabilità con deriva assemblearista è dietro l’angolo.

La competenza, la saggezza e l’equilibrio istituzionale del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella sono una garanzia circa l’esercizio del suo mandato e certamente terminerà il mandato in linea con gli alti standard del settennato. Un monito per l’intero sistema partitico. È un viatico per il Paese.