Welfare state a rischio: dopo il virus rinasceremo, ma come?

Mio editoriale per IL RIFORMISTA

La pandemia generata dal Covid-19 dagli inizi del 2020 apre scenari geopolitici imponderabili e mutamenti sociopolitici in divenire su scala globale. Oltre alle dure conseguenze finanziarie ed economiche, il contagio mette in discussione il ruolo degli Stati nazionali, delle organizzazioni sovranazionali, persino della convivenza civile.
La scala di astrazione su cui ragionare deve contemplare la dicotomia “diritti civili” vs “ragion di Stato”, ma anche una ridefinizione, teorica e filosofico-politica, del ruolo dello Stato. I numeri della pandemia hanno minato alle basi l’economia, ma anche indotto – consapevolmente solo per taluni – a richiamare in auge l’intervento del Leviatano nelle sue articolazioni. In contesti continentali europei, il principale interlocutore di cittadini e interessi organizzati è tornato a essere l’”antico” Stato ottocentesco con le articolazioni territoriali, i servizi, il controllo della sicurezza, il welfare state.

Welfare state a rischio: dopo il virus rinasceremo, ma come?

Ricordare però che i “servizi sociali” e lo “stato sociale” non sono che una invenzione post WWII, almeno nella dimensione nazionale e diffusa, intesa come policy deliberata, aiuta a mettere in evidenza la contraddizione pungente tra democrazia e non democrazia. Tra liberismo senza freni e “modello renano”.  Italia e Cina rappresentano due casi paradigmatici quanto a indicatori di democrazia e di impianto economico e ruolo dello Stato. Entrambi i Paesi supereranno la fase emergenziale e la pandemia perché la scienza è avanzata e diffusa, solida. Il discrimine dipenderà dal come i sistemi politici nazionali affronteranno l’emergenza, ossia coniugando rispetto delle libertà individuali e ragion di Stato, ovvero annichilendo l’individuo e le sue specificità.

Nel primo, caso, tipico dei regimi liberali, lo Stato garantisce la sicurezza (nel caso in specie sanitaria) e contempla e garantisce che i propri cittadini siano “liberi” di esercitare i propri diritti. Nel secondo, l’individuo è un numero assoggettato oltre che associato alla massa e la sua peculiarità soggettiva si esaurisce nella missione dello Stato, totalizzante. Il quale annichilisce la dimensione personale, tacita i corpi intermedi e controlla il dissenso, spesso con la repressione fisica. I regimi totalitari mettono in pratica un universo concentrazionario, dove la libertà individuale è sacrificata in nome del bene supremo collettivo, sia esso l’ideologia, il partito unico, la volontà del capo, ovvero la missione redentrice.

Nel caso della Cina rappresentata dalla crescita economica senza limiti e senza tutele. Nella gestione della pandemia, il governo o meglio il regime cinese ha nascosto informazioni, allontanato i dissidenti e mostrato una gestione muscolare tipica delle dittature chine a mostrare solo “il meglio”. Per ricostruire, o per evitare di compromettere la già tenue reputazione internazionale, ora il regime di Pechino prova ad agire con il classico disegno di soft-power, cerca cioè di accreditarsi, di cambiare la percezione di sé stessa presso le opinioni pubbliche mondiali. Il risultato può anche essere lusinghiero, soprattutto in fasi emergenziali, prova ne sia il debole risalto pubblico conferito al sostegno dell’Unione europea, o degli americani che consegnano un ospedale da campo, mentre la Cina – un sistema totalitario – diventa per taluni, troppi, addirittura un modello da seguire. La Cina, almeno quanto gli Stati Uniti, pratica non solo la solidarietà, ma, come detto, esercita soft-power.

Il tema dell’intervento dello Stato diventa pertanto cruciale per presagire quale sia lo scenario principale allorché il Covid-19 venisse sconfitto. La questione dello “Stato di eccezione” che rischia di diventare normalità, ossia norma.
Lo stato di eccezione si registra in momenti cruciali, di “crisi” della società. Anche le Costituzioni democratiche prevedono questa fattispecie (in Italia, ad esempio, l’art. 16 della Carta prevede che «ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza»).

Una eccezione dunque alla libertà individuale inviolabile e non limitabile. E anche in ambito legislativo l’eccezione è data dalla potestà di adottare provvedimenti provvisori con forza di legge, i cosiddetti “decreti legge” cui la Costituzione conferisce un ruolo di supplenza “occasionale”, eccezionale (art. 77).  Nei regimi non democratici i capi di governo utilizzano lo stato d’eccezione per “normalizzare” eventuali tentativi di dissenso, forme di protesta, modelli alternativi e rischi di cambiamenti. È quanto avviene in casi di conflitti armati, di attacchi alle fondamenta dello Stato e alla solidità della società, spesso rappresentata in forma organicistica.

Carl Schmitt temeva appunto che il caso unico diventasse norma/le, che l’eccezionalità si convertisse in regola. Del resto, come tra gli altri dimostrato chiaramente da Giorgio Agamben, la sospensione dei diritti fondamentali nella Germania nazista (dopo l’incendio del Reichstag nel 1933) avvenne ricorrendo a un articolo della Costituzione di Weimar, che attribuiva al presidente della Repubblica poteri eccezionali in caso di emergenza. Il problema, dunque, non è lo stato di eccezione per sé, nemmeno l’adozione di misure draconiane.

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A cosa servono le elezioni?

commento al volume di Van Reybrouck 

Il titolo è fuorviante, Contro le elezioni. Il sottotitolo è errato, Perché votare non è più democratico. Il volume non è un pamphlet “contro le elezioni”, perché non è la tesi sostenuta da Van Reybrouck (autore sempre da Feltrinelli di Congo). Il quale non lo fa né dal punto di vista politico e teorico né sul piano empirico. L’argomento centrale è che esista uno scollamento crescente tra i cittadini/elettori e la democrazia.

L’asse portante del volume è un malcelato attacco alla Democrazia. Nulla di innovativo quanto a critiche al regime anelato da milioni di esseri umani per decenni, o addirittura a volte secoli. Questo punto rappresenta al contempo un chiaro elemento di debolezza dell’argomentazione, stante la longeva critica democratica cui il testo non aggiunge spunti, e il filone promettente di argomentazione, almeno potenziale. Manca l’affondo, la critica argomentata e “definitiva” al regime democratico. Di cui evidentemente le elezioni non sono che solo un aspetto, sebbene cruciale.

Inoltre sostenere che “votare non è più democratico” manifesta una distorsione analitica e concettuale, tanto nel merito quanto in prospettiva storica. I sistemi elettorali sono costruzioni umane di impianto politico-giuridico e come tali passibili di critiche e migliorie. La “bontà” di un sistema elettorale dipende dall’obiettivo che il legislatore si pone. Non ne esistono di “migliori” o di “peggiori” in assoluto, ma tali caratteristiche sono da considerare in relazione agli scopi.

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