SALVINI ADDIO… IL COVID FA PIU’ PAURA DEGLI SBARCHI

mio editoriale per il RIFORMISTA

Per almeno un lustro, da quando il sen. Matteo Salvini è arrivato alla guida della Lega, l’Italia ha vissuto un periodo di vera e propria fascinazione popolare verso l’ex ministro dell’Interno.

Gli elementi di innovazione propugnati da Salvini per far dimenticare i disastri del “cerchio magico” bossiano, i diamanti e le lauree false in Albania, e tentare di rilanciare un partito esangue elettoralmente, sono state sostanzialmente tre.

La Lega Nazionale: Salvini ha provato a “nazionalizzare” il partito. La Lega di Salvini è riuscita a realizzare un cambiamento nella continuità. Negli anni recenti è passata da movimento federalista, autonomista e secessionista (puntava a separare anche istituzionalmente le regioni del Nord dal resto dell’Italia) a formazione che si proietta dentro il mondo e i temi della destra nazionalista: lotta alla mondializzazione, all’immigrazione, all’Europa della moneta unica e della democrazia pluralista. In passato la Lega guardava con favore all’“Europa delle regioni” come via di uscita dallo Stato nazionale. Di fronte al mancato riconoscimento della possibilità di uno stato indipendente padano, la Lega ha cominciato a opporsi all’Europa in nome di un progetto diverso. È passata dallo slogan “Prima il Nord” a quello “Prima gli italiani”. È diventato un partito nazionalista ma non pienamente nazionale, perché il Nord Italia resta il suo nucleo economico e identitario da difendere contro la concorrenza globale (mentre il resto del paese un’appendice elettorale funzionale al progetto). In questa chiave si deve leggere ad esempio la proposta di rilancio dell’“autonomia differenziata” per mantenere una quota maggiore di tassazione all’interno delle regioni e ridurre i meccanismi di riequilibrio e redistribuzione statale tra aree ricche e aree povere (in altri termini, un attacco al welfare nazionale).

Lega partito “neutrale”, terzo, super partes, a-ideologico, post-ideologico. La Lega ha rafforzato la collocazione nell’ambito delle formazioni populiste europee, diventando sempre più un partito di estrema destra. Siamo in presenza di un cambiamento di lungo periodo, che si è accentuato negli anni recenti. Si rileva dalla posizione del partito e degli elettori su alcuni temi chiave come l’immigrazione, l’euroscetticismo, il tradizionalismo etico (chiusura sui diritti delle coppie gay, ruolo della donna, ecc.). La crescita di importanza della questione immigrazione nella retorica politica leghista è forse la dimensione che più di altre aiuta a cogliere questa trasformazione. Attorno a questa issue la Lega ha costruito le sue posizioni di successo più forti, rilanciando l’immagine di una società moralmente compatta, cristiana nelle sue origini, sciovinista (welfare per gli italiani) e senza perdere consensi nonostante questa estremizzazione dei riferimenti culturali-ideologici-valoriali.

Lega partito dei derelitti, dei poveri, dei disoccupati. Per quanto riguarda la sua base sociale, l’elettorato della Lega è cambiato poco nel corso del tempo: cittadini di mezza età, relativamente sicuri del loro posto di lavori e preoccupati per la perdita del potere di acquisto del salario (o della pensione futura). La Lega resta un partito con una forte presenza di lavoratori autonomi. La quota di operai è diventata importante, ma non prevalente e insufficiente per sostenere la tesi di uno sfondamento leghista tra i ceti subalterni. Si può parlare di una formazione solo in parte interclassista per la difficoltà che mantiene a intercettare il mondo lavorativo del settore pubblico ma anche perché il partito non riesce a egemonizzare le aree del non lavoro e del precariato e neppure quella dei giovani, dove a ottenere più successi è il M5s. L’aspirazione di Salvini è rappresentare assieme la borghesia produttiva (del Nord) e i ceti popolari. Avere un blocco di consensi trasversale è un punto di forza, ma rende più difficile conciliare politiche e interessi diversi senza creare confusione tra l’elettorato.

In tempi normali, o meglio ordinari, la vocazione populista e anti-sistema ha rappresentato una rendita di posizione redditizia. Viceversa, la proposta politica della Lega di Salvini risulta evanescente alla luce dell’emergenza generata dal COVID-19. In passato, le contraddizioni erano state variamente disvelate e l’inadeguatezza messa in evidenza, anche con dati empirici, ma nello zeitgeist populista e qualunquista, erano state comunque accettate e sostenute da messi di elettori. Soprattutto sono state avallate, sostenute e condivise da ampie fette della borghesia italiana, spesso avvezza a chinar la testa al potente di turno, senza entrare nel merito delle questioni, in un rapporto malato con il potere, votato alla subordinazione e non, invece, al confronto dialettico, come avvien nelle moderne democrazie liberali. Le drammatiche vicende della pandemia mettono in risalto molte zone grigie sul presunto modello di buon governo della Lombardia a traino leghista, sulla sanità privatizzata e lottizzata, e rendono fatui gli strali sul “prima gli italiani”. Infine, ri-emerge chiaramente la divisione storica tra leghisti veneti e leghisti lombardi, nel quado di una classe dirigente leghista che mai ha realmente condiviso la scelta di Salvini, per quanto tattica fosse, di presentarsi come un leader di partito nazionale. Le indubbie abilità politiche di Salvini si scontrano con la fase “emergenziale” e, come emerso dalla recente ottima intervista raccolta da M. Cremonesi sul Corriere, pongono in evidenza molte difficoltà del Capitano. L’assenza del tema Immigrazione toglie acqua e ossigeno alla propaganda di Salvini, colpevole di aver reso la Lega un partito monotematico (one issue party): senza quel tema Salvini ha le polveri bagnate. Inoltre, Salvini è ritenuto colpevole da un’ampia fetta di partito di aver abbandonato i temi cari alla Lega. Dal federalismo al governo locale. Negli anni Ottanta e Novanta, pur tra molte contraddizioni, la Lega bossiana contribuì a disvelare malcostume e malgoverno, la necessità di liberalizzare l’economia e il Paese, e a porre la “questione del Nord”, oramai senza più interlocutori dopo la caduta della DC. In questa fase, invece, sembra che Salvini abbia perso il touch, l’empatia con il popolo italiano e quello del Nord in particolare. Inoltre, la divisione con Zaia è sempre più evidente, a conferma dell’antico rapporto di “odio-amore” tra leghisti veneti e lombardi. Il silenzio di Maroni e le forti perplessità di Giorgetti, specialmente sull’Europa, sono eloquenti assai.

Il COVID porta via dunque molte false certezze sulla Lega Nord e anche la guida tetragona di Salvini, sempre più discussa e contendibile.

 

Sarà il Nord a tradire il ministro Matteo Salvini

mia intervista per “Lo Spiffero

La Lega del Capitano non ha (quasi) più nulla da spartire con quella delle origini. Esaurita la propaganda si schianterà sull’economia. La matrice di “estrema destra” e la storica diffidenza del Piemonte. Analisi del politologo Passarelli

L’elettorato del Nord che è molto pragmatico e molto attento potrà seguire la Lega fino a un certo punto sul tema dell’immigrazione. Poi arriverà, forse prima di quanto si pensi, il momento in cui le imprese diranno con forza: guardate che con gli immigrati ci lavoriamo, vero che tra loro ci sono alcuni delinquenti, ma non possiamo affidarci per anni a chi ha in agenda un solo tema e lo usa ossessivamente non avendo altre proposte. È un elettorato pragmatico, che vede l’immigrazione come un problema da risolvere, ma non accetta che si parli solo di questo, mentre gli investimenti restano fermi e si spendono miliardi nel reddito di cittadinanza, che altro non è se non una mancia elettorale. Paradossalmente sarà proprio il Nord il punto dolente della Lega di Salvini”.

Professor Passarelli, lei vuol dire che proprio laddove trentacinque anni fa hanno preso a girare le ruote del Carroccio, mosse dall’idea politicamente geniale di Umberto Bossi, il suo successore indiretto ed erede non certo designato, in una sorta di nemesi, potrebbe avere i primi problemi?
“Intanto, l’osannato partito territoriale ha perso il 66% delle sezioni e al Nord gli elettori sono in stand-by. Appena Salvini andrà in difficoltà sull’economia, quegli elettori cosa diranno? Grideranno viva il reddito di cittadinanza o chiederanno un partito che risolva i problemi reali, faccia gli investimenti e la smetta con questo tema unico dell’immigrazione?”.

Gianluca Passarelli è professore associato in Scienza Politica all’Università La Sapienza di Roma, ricercatore dell’Istituto Carlo Cattaneo e membro di Itanes, nei suoi studi si occupa di presidenti della Repubblica, partiti, sistemi elettorali, elezioni e comportamento di voto. È autore di numerosi saggi. L’ultimo, La Lega di Salvini. Estrema destra di governo (ed. Il Mulino), scritto con Dario Tuorto, uscito pochi mesi fa non è stato certo accolto bene dagli uomini del Capitano: un’interrogazione in Regione Emilia-Romagna e pure una in Parlamento dopo che il testo è stato consigliato nei corsi dell’ateneo di Bologna. Quella definizione di estrema destra è indigesta alla Lega che, piaccia o no, non è più da tempo quella di Bossi, uno che su fascismo e antifascismo aveva posizioni ed espressioni assai più nette rispetto a Salvini.

Incominciamo da qui, professore, da quanto è di destra la Lega e quanto sia cambiata la collocazione politica con Salvini rispetto al movimento delle origini.
“Quando Bossi urlando a suo modo disse: mai con la porcilaia fascista, mai con Fini, si era in un periodo storico in cui lui doveva distinguersi da quello che era l’antagonista principale soprattutto al Sud”.

All’epoca a Silvio Berlusconi riuscì l’impresa: allearsi al Centro-Sud con Alleanza Nazionale, appena nata dalla svolta di Fiuggi, e al Nord con la Lega. Ma quella di Bossi era una posizione soltanto tattica, o lei non crede che quel marcare la sua distanza con la destra post-fascista fosse, diciamo, sincera?
“Sì, ci credeva davvero. Nella Lega c’era quell’animo popolare delle valli alpine che avevano vissuto la Resistenza. Questo aspetto genuinamente repubblicano e popolare c’era e si coniugava con una grande spinta all’autonomia con un’avversione non proprio francescana nei confronti del Meridione. C’era quest’anima ancora un po’ solidale”.

E poi non poche figure di spicco della Lega, all’epoca, arrivavano da sinistra, addirittura dal Pci come Gipo Farassino o da esperienze e ideali autonomisti, come Roberto Gremmo con la sua Union Piemonteisa, idee che certo si rifacevano più alla Carta di Chivasso che a Ezra Pound. Lo stesso Roberto Maroni prima di incontrare l’Umberto stava addirittura in Democrazia Proletaria.  
“Maroni…. Basterebbe considerare il ruolo di ministro degli Interni svolto da lui e quello dell’attuale che è del tutto privo di cultura istituzionale e quindi si muove come un elefante in una cristalleria. Una differenza enorme, abissale”.

Per contro c’erano anche i Mario Borghezio che dopo aver risposto per anni a chi gli telefonava con un Pronto Padania Libera, nel 2014 va dal neofascista Stefano Delle Chiaie e gli dice: “Comandante, quando il nostro popolo sente il bisogno di una rivoluzione nazionale, noi dobbiamo metterci alla guida di questa rivoluzione. Questo è il compito anche tuo”. Significativo no?
“Bossi una cosa del genere non l’avrebbe mai fatta, li conosceva, li tollerava, li teneva a debita distanza. Come mai avrebbe fatto dei selfie con dei panini. Bossi è persona seria e politico vero. Con grande realismo politico sapeva che aveva bisogno di quella componente di destra, ma non ha mai consentito diventasse egemonica. Lui li metteva in riga. L’attuale ministro dell’Interno, invece, non ha battuto ciglio quando CasaPound ha annunciato un bagno di sangue se la Guardia di Finanza avesse proseguito nel tentativo di sgombrare lo stabile occupato a Roma. Bossi non le mandava a dire, governava il partito con il pugno di ferro, lo stesso Maroni fu espulso. Però c’era una dialettica interna, con l’ala destra dei Borghezio, ma anche un’area istituzionale. Era un partito complesso”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Però perdeva voti, sembrava alla fine. Poi arriva Salvini e adesso è ampiamente sopra il 30 per cento. La Lega di estrema destra piace. Ma come si arriva a questa mutazione, non certo sempre presa bene da quelli che avevano vissuto il movimento delle origini e il partito degli anni successivi?
“Dal 2001 in poi c’è stata una torsione, peraltro ancora sotto la guida bossiana, verso destra. Questa torsione dopo le Torri Gemelle, vede il partito usare lo strumento religioso per difendere la cosiddetta civiltà occidentale rispetto a quella musulmana. Quando arriva Salvini, stante la sua poco cultura istituzionale, si getta a braccia aperte nel mondo dell’estrema destra, con un certo fiuto politico che però non enfatizzerei: c’era uno spazio che nessuno copriva e quindi con tentativo di sostituire il nemico meridionale con quello arabo”.

A lui e ai suoi non piace essere definiti di estrema destra. Il suo libro è stato, diciamo, messo all’indice dalla Lega.
“Mi sorprende la sorpresa di fronte alla nostra analisi e alla definizione di partito di estrema destra: peraltro è, come ho appena detto, qualcosa che risale a dieci o quindici anni fa, così come nessuno all’estero si sorprende. Mi trovo in Finlandia e qui il partito di Salvini è considerato di estrema destra. Tuttavia, se ci si vergogna di essere definiti di estrema destra non è un problema, basta fare una dichiarazione in cui si dice che non lo si è, si prendono le distanze da essa e si afferma di condividere lo spirito antifascista della Carta Costituzionale e si partecipa alle manifestazioni del 25 Aprile col tricolore in mano”.

Lei sa bene cos’ha detto il leader della Lega della Festa della Liberazione, paragonandola a un derby tra fascisti e comunisti.  
“Ma visto che dice sempre: prima gli italiani, avere il tricolore in mano il 25 Aprile è la scelta più bella. Salvini potrebbe dimostrare di essere un grande patriota. I partigiani erano dei grandi patrioti contro l’occupazione nazifascista, e in Piemonte lo sapete bene”.

Infatti, come dicevamo, alcuni dei protagonisti della Lega originaria in questa regione arrivavano da posizioni politiche lontane da quelle della destra. Però adesso che il partito di Salvini è più a destra, gli elettori sono cresciuti rispetto a un po’ di anni fa.
“Sono cambiate le ragioni, le regioni e gli elettori. Il Piemonte è sempre stato una storia a parte rispetto al Lombardo-Veneto, è stato sempre minoritario rispetto alla Lega lombarda e veneta, tuttavia non scordiamoci che l’illuminazione sulla via di Damasco per Bossi avviene quando incontra il leader dell’Union Valdotaine, quindi nasce in quell’area nord-occidentale la sua idea di autonomia”.

Professore lei sembra mettere in contrasto il partito di Bossi rispetto al giudizio negativo su quello di Salvini. Era migliore quella Lega?
“La Lega delle origini, se la guardiamo in maniera storica, poneva delle questioni reali e serie rispetto alla territorialità che poi venne declinata in maniera un po’ strampalata con la secessione. All’inizio il bisogno del regionalismo e del federalismo, erano spunti interessanti sull’autonomia. Poi ha avuto il merito di porre l’argomento della degenerazione della partitocrazia: negli anni Ottanta il pentapartito fa impennare il debito pubblico e il Nord, soprattutto il Nord Est dice: noi non ci sentiamo più rappresentati. Quelle erano rivendicazioni vere. Invece, adesso il ministro dell’Interno è abile a prendersela con gli immigrati e con alcune minoranze con una forma di razzismo da nazismo. Si insegue un falso tema, quello dell’immigrazione che resta un problema per cui ricercare soluzioni, ma non solo, non il principale. Salvini parla solo di quello perché non c’è una vera proposta sui temi economici e culturali”.

C’è, però, una parte di elettorato che ha abbandonato il Pd, dopo il successo del 2014 con Matteo Renzi, e che lascia giorno dopo giorno anche Forza Italia. Lei nel libro sostiene che quelli più a destra del partito di Berlusconi sono già migrati verso Salvini. Gli altri?
“Li chiamerei elettori in cerca d’autore: puntano a un’Italia liberale e per certi versi liberista. Non possono votare Berlusconi perché sono esausti da questa figura politica ormai usurata, il Pd è ancora in affanno e non ha credibilità soprattutto nel Nord, anche se è lì che dovrebbe investire. I Cinquestelle mi paiono non in grado di soddisfare quel tipo di elettorato. A questo punto vedo un rischio astensione. Perché quel tipo di elettore non può votare Lega: l’immigrazione è un problema ma anche una risorsa, e poi non accetta che si possano discriminare i bambini nelle scuole, e sul piano internazionale non vede sicuramente bene uno spostamento dall’Atlantico alla Russia. Ecco perché non mi sento di escludere possano optare per il non voto”.

Restando in Piemonte, dove si andrà ai seggi tra poco più di un mese, uno dei problemi che neppure la dirigenza della Lega può negare è la scarsità di figure su cui contare per il probabile governo della Regione. Una penuria figlia di pesanti migrazioni verso il Parlamento e alla guida di città importanti. Lei non crede che questo sia indicativo anche di un cambiamento di un partito che per anni ha sfornato molti amministratori locali?  
“Certamente sì. Storicamente la Lega ha una classe di amministratori, spesso valida. Non pochi di loro, secondo me, oggi sono anche a disagio di fronte alla linea del loro leader, pur non manifestandolo. Non lo dicono apertamente, ma mormorano come il Piave. Una situazione dovuta al fatto che Salvini ha accentrato totalmente il partito nelle proprie mani per una strategia elettorale. Al Sud, per esempio, la classe dirigente è fatta di transfughi e talvolta personaggi un po’ obliqui”.

E il Nord?
“Rischia di essere abbandonato. Quando centralizzi tutto su di te hai dei vantaggi elettorali, ma quando questa bolla si restringerà, non ci sarà più la via d’uscita che con Bossi era rappresentata dal partito, dalle migliaia di sezioni. Adesso sono già meno della metà. E da qui, da dove la Lega è nata e cresciuta, potrebbe incominciare la sua crisi”.