USA, Trump e le lezioni per l’Italia

Editoriale per IL RIFORMISTA

Sic transit gloria mundi. Silvio Berlusconi definitivo e cinico si pronuncia su assassinio di Muammar Gheddafi, che pure ha ospitato in Italia, con onori reali, accettando tende, amazzoni e cavalli al seguito. La fortuna è cangiante direbbe Machiavelli e gli amici dimenticano presto, e ti lasciano da solo. Deve aver pensato qualcosa di simile in queste ore il 45° Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, isolato da tutti. Tranne dai suoi fanatici sostenitori. Il popolo per il populista.

Verrebbe quasi da essere solidali con il magnate americano che pure non ha mai fatto o detto nulla che facesse presagire un mandato presidenziale all’insegna del rispetto delle istituzioni, della democrazia, dei diritti delle minoranze, della cooperazione pacifica e della riconciliazione nazionale. Gli arroganti, i potenti e i prepotenti ispirano quasi sempre umana pietas quando si avviano sul viale del tramonto, fisico e politico. Ma siccome siamo politica e non una congrega è necessario misurare i politici secondo i loro atti.

Le parole sono pietre, segnano le vite, il corso sociale degli eventi, offendono, lapidano, lacerano, mortificano e provocano reazioni. Generano emozioni ed esasperano gli animi. Per quattro lunghi anni, cui aggiungere quello delle primarie repubblicane che lo incoronò candidato, The Donald, non ha mai, in nessuna occasione celato la sua insolita, insolente, innata e ontologica disaffezione, insofferenza fisica e intellettuale per i vincoli legali, istituzionali e politici che controllano e bilanciano il potere presidenziale. Ha sistematicamente attaccato gli avversari in patria e overseas, gli intellettuali, i complotti di Washington, le corporations, i mass media, the deep State, i burocrati, gli alti ufficiali dell’esercito che non lo assecondavano, i servizi segreti, i consiglieri, i capi di Stato e di governo non allineati, gli stessi membri del suo gabinetto, che sono cambiati con una frequenza molto elevata. Le sedi istituzionali, diplomatiche, i social networks adoprati come clave per colpire chiunque non si allineasse. Scimmiottare gli disabili, irretire i “nazisti dell’Illinois”, fagocitare le critiche nelle conferenze stampa; sempre un metro in avanti verso il declino di questi giorni, delle settimane successive all’election day. L’imbarazzo delle cancellerie europee per le intemerate di Trump, le scortesie, gli incidenti diplomatici, l’arroganza palese e patente durante gli eventi internazionali (sposta in malo modo il primo ministro del Montenegro Dusko Markovic per guadagnare la prima fila durante un vertice della Nato).

Pertanto, osservare la cronaca recente è utile, certo, ma è anche profondamente noioso, intellettualmente pigro ché si perde la prospettiva. Il partito repubblicano, escluse notevoli, degne eccezioni quali D. Cheney, M. Romney, P. Ryan, Bush junior o J. McCain (che lo escluse anche dai funerali), si è accodato al Commander in chief. L’unica postura palesemente oppositiva a Trump e radicalmente ostile con costanza repubblicana è stata quella di Melania Trump, frettolosamente osannata, appunto, dai liberal ambo lato dell’Oceano, dopo averla prima irrisa come complice arpia. Suscita, dunque, un certo scetticismo tanta acrimonia nei confronti del Presidente uscente (vedremo in che forma), segnale inequivocabile della carenza di pensiero critico nei gangli delle istituzioni, un parossistico e pusillanime conformismo tipico della massificazione.

Oggi Trump è un paria. Ma fino a ieri The Donald era cercato, lusingato, non solo perché sì accade a chiunque detenga un po’ di potere (e Trump ne ha e aveva tanto in quanto Presidente USA), ma soprattutto per compiacenza, debolezza, stoltezza, arrivismo e conformismo. Nonché per condivisione di quello zeitgeist populista e antidemocratico che da due decenni almeno avvelena i pozzi delle istituzioni in America, in Europa e in Italia. Ovviamente.

Nell’ex bel Paese per anni hanno pascolato senza controlli idee e personaggi fautori di criminogene azioni, verbali e fisiche, contro le istituzioni democratiche, mortificate dall’insolenza baldanzosa e crapula. Oltre al ventennio berlusconiano che ha disseminato il campo di mine anti-istituzioni con “parole, opere e omissioni”, recentemente abbiamo avuto l’exploit dell’incompetenza osannata come punto vincente. L’ignoranza sbandierata e rivendicata sfacciatamente nei curricula. Il deputato neo-rieletto Luigi Di Maio pronunciò attacchi violenti nei confronti del Presidente della Repubblica. Reo, secondo la giurisprudenza costituzionale grillina, di applicare la Carta e di esercitare le sue prerogative senza però volere conferire l’incarico a uno di loro. Uno sgarbo tremendo. Attacchi irripetibili, oltre che irricevibili (ma questo lo sventurato non poteva saperlo, trincerato dietro lo scudo dell’ignoranza come qualità suprema), e che si esaurirono in un gracido gracchiare sfumato dopo poche ore grazie alla saggezza del Quirinale. Più che un colpo di Stato fu uno scenario macchiettistico, come il fautore del neoqualunquismo odierno nato dal V-day che ha sdoganato le pulsioni neofasciste celate. Mattarella è un signore nella vita e in politica e nelle istituzioni ché Pertini, Cossiga o Scalfaro lo avrebbero rinchiuso a Castel Sant’Angelo, in punizione sui ceci a leggere la Carta. Evocare l’impeachment non è tanto diverso da Trump che attacca e intimidisce il segretario di Stato della Georgia in cerca di voti per cambiare l’esito del voto. Due populisti che come infanti scalciano perché la realtà è diversa da come vorrebbero.

Indimenticabile il Presidente del Consiglio Giusepp(i) Conte prono dinanzi a Trump recitare il salmo del cambiamento: “il mio (non quello italiano, n.d.a.) Governo e l’Amministrazione Trump (pronunciato Truaamp) sono entrambi governi del cambiamento”. Assunto ovviamente come assioma di positivo (M. Damilano, Processo al Nuovo, Laterza) in quanto “nuovo”, scordando beatamente il presidente del vero change Barack H. Obama.

E ancora i grillini (di cui Conte è espressione e ispirazione) dichiarare urbi et orbi che tutto sommato Trump e Hillary Clinton pari sono, per cui non presero posizione, ossia la conferma dell’antipolitica. Ma anche l’intero programma (o minaccia) del Movimento 5 stelle è in fondo basato su un atto eversivo, celato come metafora di rinnovamento purificatore: aprire il Parlamento come una scatoletta! E quasi mai nessuno ha condannato sistematicamente tale atteggiamento, tutti colpiti da incurabile blesità istituzionale. Mentre il corpo dello Stato, delle istituzioni e della democrazia incassavano, indebolendosi. E la società si mitridatizzava, nutrita o esposta a piccole dosi di veleno. Fino a quando?

Personaggi in cerca di autore e photo op, come il casareccio senatore M. Salvini (eletto a Locri) che intrepido ottenne una comparsata con Trump (non ancora Presidente), il quale non lo volle incontrare nel 2019 e ne tessette pubblicamente, legittimamente le lodi, fino a ieri. Tace oggi. Del resto, sul piano internazionale e diplomatico il truce non è proprio a suo agio tra le feluche diplomatiche. Anzi sbanda, acerbo dell’abc istituzionale. Vasta è la letteratura sul tema, e scelgo solo per brevità e carità di patria gli attacchi costanti della Lega Nord e di Salvini al Quirinale, alla patria, alla Bandiera, all’inno nazionale. Mentre si sperticava a difendere i satrapi polacchi e ungheresi, o a far visita ai carcerati omicida, o a non votare le sanzioni contro il dittatore Lukashenko (astenuto come gli ignavi). Il sostegno alla Russia dell’amico Putin (e viceversa) salvo poi pietire un incontro con l’Ambasciatore americano a Roma per rimediare ché per fortuna l’asse atlantista dell’Italia è ancora solido e non guarda troppo agli autocrati. Sorvoliamo su Umberto Bossi che diede lustro al messaggio antidemocratico padano per due decadi. E nessuno a difendere tenacemente. Cercare risulta indarno. Anche Giorgia Meloni, eterna promessa, ondeggia tra i Conservatori europei e i nazional-reazionari di Polonia, Ungheria e USA, intrappolata nel ricordo del passato, e non condanna Trump, ma pare compatirlo, comprenderlo, compiacerlo.

Trump rimarrà nella storia americana per un grande merito, involontariamente palesato. Avere dimostrato non solo che il Paese è profondamente diviso, ma che esiste una parte della popolazione che detesta non solo Washington, ma anche la democrazia, che odia le minoranze e le diversità di ogni risma. Che abbevera il proprio bagaglio ideologico nella logica da saloon del far West.

Ma la Storia, non solo quella americana recente, ma anche quella europea ed italiana, dimostra, e dovrebbe insegnare che assecondare il populismo è periclitante.

Per cui, per il 2021, è necessario rilanciare l’impegno democratico e riformista. Si impegnino i democratici, di destra e di sinistra, a bloccare gli antidemocratici di ogni risma, dal radicalismo di estrema destra o estrema sinistra. Dai giustizialisti, ai rosso-bruni, ai populisti da tastiera o di campagna. Per evitare un brutto risveglio tra qualche mese.

L’insegnamento di Piero Calamandrei è sempre illuminante: «[…] la libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare, quando si sente quel senso di asfissia che gli uomini della mia generazione hanno sentito per vent’anni, e che io auguro a voi, giovani, di non sentire mai».

Confido nella capacità di resipiscenza degli italiani.

America. Paese lacerato, non solo da Trump

Editoriale per DOMANI

È ormai chiaro il risultato politico ed elettorale delle presidenziali 2020, mentre il verdetto sul numero di Grandi elettori che comporranno il Collegio che formalmente eleggerà il Presidente della Repubblica degli Stati Uniti dipenderà da questioni legali/amministrative. Nelle more è possibile ritenere alcuni punti cruciali del voto USA. Evitando, come direbbe Francesco Guccini, di “parlarsi addosso” inseguendo l’ultimo lancio di agenzia sulla Pennsylvania, la dichiarazione della CNN e similia.

Il voto consegna un Paese diviso, frammentato, altamente polarizzato. Si tratta di una conferma e non di un esito generato dalle urne del 3 novembre. Gli Stati Uniti sono polarizzati su vari assi. Sul piano ideologico le distanze tra Repubblicani e Democratici sono sempre più ampie, e anche nei due partiti l’ala radicale pesa significativamente e guida l’orientamento ideologico e le proposte di policy. Ne consegue una crescente frattura anche all’interno del Parlamento in cui il voto sul merito è stato fagocitato dalla disciplina di partito, per cui anche su temi trasversali contano di più le appartenenze che le politiche. Per dare contezza di tale distanza, si consideri che per la prima volta nella storia recente la nomina presidenziale di un giudice della Corte Suprema federale (A. Coney Barrett) è stata confermata dal Senato senza nemmeno un voto del partito opposto a quello del capo dell’Amministrazione (Scalia fu votato da 98 senatori). Lo stesso accade sulla sanità, e l’Obama Care divenuto un tema da crociata ideologica tra sedicenti liberisti e presunti propugnatori del socialismo reale. I diritti civili, ferita sanguinosa sin dal capolavoro politico abolizionista di Abraham Lincoln, permangono quale frattura sociale, con tensioni crescenti fra gruppi etnici. A questo si aggiunga la potente segregazione economica e sociale tra l’1% della popolazione che detiene quasi tutto e la base che accede a malapena al poco (tra il 1974 e il 2016 l’indice di Gini è passato da 0.34 a 0.41). La disuguaglianza aumenta tra gruppi etnici con le famiglie bianche dieci volte più benestanti di quelle nere e meno investite dalla disoccupazione (14% vs 18%, fonte: US Department of Labour), le quali rischiano tre volte di più di finire nelle maglie della povertà (8% famiglie bianche, 21% famiglie nere). E come conseguenza una disparità anche nel fato: i neri sono il 23% dei morti per COVID a fronte del 13% del loro peso sull’intera popolazione americana. Anche se per le scelte di voto i latinos hanno in parte deluso le aspettative democratiche in Texas e Florida poiché quel gruppo è eterogeneo, e una parte proviene da Cuba e Venezuela e perciò più affine con l’impostazione Repubblicana.

Il voto ha poi esacerbato la distanza tra città e campagna, tra centro e periferia. Tra zone rurali e urbane, ma anche tra aree geografiche del Paese. Una segregazione persino urbanistica, con contee in cui è praticamente impossibile incontrare un diverso da sé sul piano politico-ideologico. Solo il 3% ha scelto chi votare nell’ultima settimana prima del voto, a conferma del processo di auto-configurazione e consolidamento della identità, come pure evidente dalla rappresentazione dicotomica fatta dalle principali TV, Fox e CNN. Una auto-reclusione entro confini valoriali simili, per escludere l’altro. La mappa elettorale pone benissimo in evidenza che esistono, e persistono due Americhe: quella del voto nelle grandi città, dove i Democratici surclassano gli avversari con percentuali da regimi autoritari, e viceversa aree in cui i candidati del partito Repubblicano travolgono ogni possibile sfidante. Da anni. In Alaska, Idaho, Nord e Sud Dakota, Nebraska, Oklahoma, Utah, Wyoming …  i repubblicani vincono ininterrottamente dal 1972. La probabile vittoria dei Democratici in Georgia non avveniva dal … 1992 (e ci fu la candidatura “terza” di Perot). Il partito Democratico è un partito urbano, quasi ancorato alle riserve dei grandi agglomerati urbani, mentre il Grand Old Party conserva un tratto “nazionale”, ossia più diffuso e omogeneo.

Ma poi esistono due Americhe, due spaccati sociali degni di un romanzo di P. Roth. Del resto per predire il voto il tema più significativo capace di orientare le scelte di campo è l’atteggiamento verso l’aborto. Con i favorevoli decisamente pro-Dem e i contrari pro-Rep, specialmente nella componente evangelica. Cui Trump ha dato fiato, legittimazione politica e copertura culturale partecipando alla marcia del movimento pro-Life (Obama guidò l’omologa in ricordo di quella partita da Selma) e non rinnegando le esaltazioni di odio sociale e ideologico dei negazionisti e suprematisti bianchi e dei complottisti di QAnon (la fanatica J. R. Perkins è stata eletta senatrice in Oregon).

Pertanto, se l’America socio-politica del 2020 in parte è un mix, una dicotomia tra l’atmosfera rurale dell’American Gothic e uno scorcio newyorkese à la Woody Allen, dal punto di vista istituzionale, la prospettiva è meno lacerata. Il sistema sta dando prova di solidità, e i ritardi e le complessità appaiono tali sono agli occhi di osservatori disattenti.

La strutturazione del sistema politico-istituzionale secondo la celebre formula del separate institutions sharing powers andrebbe ripetuta come un mantra per evitare di cedere a mitizzazioni ovvero a semplificazioni da provincia. Comunque andrà a finire il Presidente sarà probabilmente indebolito da una condizione di Governo diviso (non ha la maggioranza omogenea almeno in una delle due assemblee) ovvero i Democratici sarebbero costretti a governare controllando il Senato con uno scarto minimo.

Il Governo diviso è una costante del Governo USA: quasi tre quarti degli anni tra il 1968 ad oggi e il 61% dal 1945 ha visto contrapporsi Presidente e Parlamento di colori politici diversi. Anche in virtù delle elezioni di metà mandato (mid-term) che ogni due anni ri-mettono in discussione gli equilibri politici, in quella che è definita “campagna elettorale permanente”. Che ha l’effetto benefico della responsabilizzazione degli eletti verso i rappresentanti, anche grazie al sistema elettorale maggioritario, e inoltre consente di ri-bilanciare l’equilibrio tra poteri, mutando perciò gli assetti di governo tra esecutivo e legislativo. L’assetto federale va sempre tenuto in conto, sia per leggere le dinamiche politiche e istituzionali, ma anche per comprendere meglio la corrente situazione di potenziale stallo nel ri-conteggio dei voti, postali e non (con annesso ricorsi giudiziari minacciati o promessi). Ciascuno Stato (a volte anche le contee) ha una legislazione elettorale, inclusa la possibilità di disegnare, arbitrariamente, i collegi elettorali della Camera. Con conseguente consolidamento del circuito di demarcazione delle identità e delle appartenenze politiche e partitiche su basi territoriali (gerrymandering).

Le divisioni presenti certamente all’interno della Corte Suprema (sei giudici su nove di nomina repubblicana) potrebbero in realtà essere mitigate dalla volontà di non essere/non apparire partisan da parte dei giudici. I quali nominati a vita tendono a liberarsi dalla “camicia” elettorale cucita addosso dalla scelta presidenziale, certamente su temi non etici con maggiore facilità.

Il voto 2020 ha certamente polarizzato attorno ai due candidati non solo in virtù del sistema elettorale, ma anche in ragione del profilo del Presidente uscente, su cui si è giocato un vero referendum/plebiscito. Aggiuntivo elemento di frattura e divisione. Biden ha vinto nel voto popolare con quasi cinque milioni di scarto rispetto a Trump, una tendenza che vede i Democratici prevalere tra gli elettori dal 1992, con l’eccezione del 2004. Se Biden confermasse – come probabile – la prevalenza in voti dei Grandi elettori – saremmo in presenza di un Paese, come descritto, in cui i Rossi si contrappongono ai Blu. Su temi e su valori essi stessi divisivi e cruciali.

Infine, la partecipazione elettorale è stata elevata, quasi il 70%, la più consistente dal 1920, allorché il XIX emendamento costituzionale introdusse il suffragio universale, e 15 milioni in più rispetto al 2016. Gli americani hanno voglia di politica, partecipano, scendono in campo, elargiscono donazioni, fanno attività di volontariato nei partiti e per i partiti (lo sono gli occhiuti scrutatori di queste ore), agiscono in campagna elettorale, nutrono cioè la democrazia anche attraverso la militanza. Altroché partiti liquidi, come qualcuno li aveva sbeffeggiati, non conoscendoli. L’Europa ha molto da imparare dal modello americano, quanto a virtù da coltivare e vizi da bandire. Seppur diviso vale sempre E pluribus unum.

Donald Trump nel Paese diviso.

Mio editoriale per Il RIFORMISTA

MAGA, Make America Great Again! Il motto di Donald Trump. È in sostanza e nella forma quasi identico allo slogan della campagna elettorale di Ronald Reagan del 1980, il quale utilizzò un più dinamico Let’s Make America Great Again! Le analogie tra il programma di Trump e Reagan però non vanno molto oltre le assonanze visibili sui cappellini dei supporters repubblicani. The Crusader, il crociato, aveva in mente di restaurare la grandezza statunitense, sia nell’accezione di prendersi cura, ma soprattutto in quella di riportare in auge lo splendore degli USA, attore egemone nel Secolo a loro dedicato per il dominio su molta parte del globo. Ronald Reagan si era intestato l’ambizioso programma di annientare il nemico storico, nientemeno che l’impero sovietico guidato dai comunisti brutti/cattivi. Che cattivi lo erano davvero stante le condizioni dei Paesi del Patto di Varsavia e delle varie annessioni e invasioni tentate e a volte (mal) riuscite, come il paradigmatico caso dell’Afghanistan. Per espandere l’impronta americana Reagan intendeva far ripiegare la presenza sovietica, e il suo rollback era un programma di respingimento del Comunismo, e non solo di contenimento come nelle precedenti amministrazioni. E Ronnie voleva anche lavare l’onta del sostegno ai regimi autoritari anti-comunisti (in America Latina e Asia) e la vicenda dei prigionieri/ostaggi presso l’ambasciata USA a Teheran durante la rivoluzione khomeinista. E dunque, il non molto velato atto di accusa della strategia attuata nel primo caso dalle Amministrazioni Johnson e Nixon/Ford e nel secondo dalla precedente Amministrazione democratica guidata da Jimmy Carter.

Dietro la scelta di Trump, che in linea con la tradizione di tutti i presidenti punta a rilanciare il ruolo degli USA, c’è probabilmente però un goffo tentativo di scimmiottare l’ultimo grande presidente del Gran Old Party, la politica conservatrice e repubblicana di successo e il mito dell’uomo e del politico self-made. La conservazione, a tratti reazionaria in ambito politico ed economico, è anche una forma di rollback in ambito sociale, dei diritti, di cultura multipla che è poi il successo del grande sogno americano. Nel bene e nel male. Le similitudini sono molto meno delle differenze e Trump e Reagan fanno riferimento a mondi ideali, culturali e sociali non proprio sovrapponibili. Non solo per evidenti specificità storiche, ma perché Trump ha un approccio decisamente meno istituzionale e patriottico di Reagan. Il patriottismo della bandiera (si veda A. Testi, Stelle e strisce. Storia di una bandiera, 2003) nel caso di Reagan aveva un portato di mito, di mitizzazione, di autoproclamazione di superiorità dell’american way of life, il tutto in un contesto includente, quantomeno sul suolo compreso tra i due Oceani. Il patriottismo di Trump è esclusivo ed escludente, come tutte le fedi certo, ma lo è persino nel contesto del suolo nazionale e sembra non credere nell’universalismo dei valori e del modello politico americani. Se Reagan voleva sconfiggere il modello politico-economico comunista nel mondo, Trump intende mettere al bando sociale Berni Sanders e A. Ocasio-Cortez, il cui socialismo nominalista fa sorridere non solo se guardato con gli occhi etnocentrici europei, ma anche considerando il passato dell’ala liberal del partito dell’Asinello. Un anti-comunismo fuori luogo, fuori tempo e persino senza comunisti, ché la vergognosa propaganda maccartista uccise nella culla anche il fermento artistico-letterario prima che militante già negli anni Cinquanta.

Trump infierisce con l’accetta nelle ferite sociali, economiche e culturali del Paese enfatizzandone divisioni e tensioni. Il para-negazionismo in ambito scientifico, dal riscaldamento globale al Covid-19, indicano una politica basata sui richiami individuali e individualisti, ma che travalica gli aspetti del paradigma conservatore. Non c’è l’inter-nazionalismo wilsoniano, il sogno autarchico dell’ex colonia divenuta nazione sub-continentale, ma nel discorso e nel disegno trumpiano c’è la difesa delle “case nella prateria”, il recinto valoriale e la dimensione sociale della famiglia “tradizionale”, della triade “Dio, patria, famiglia, della religione. Il tutto in una torsione nazionalista di destra.

Che è poi una ritorsione contro i neri che hanno avuto l’ardire di uscire dalla Capanna dello zio Tom, di incamminarsi da Selma e che con Barack Obama hanno osato l’impensabile, vincere le elezioni e guidare il Paese. Del resto, Trump ammicca esplicitamente all’estrema destra, ai suprematisti bianchi e la gestione dell’ordine pubblico rimanda alla peggiore segregazione sudista degli anni Cinquanta e Sessanta. Con qualche negro da cortile (così Romain Gary in Cane Bianco) a far da cornice, utile al disegno di dominio razziale. Da una parte chi amerebbe il Paese, o meglio quel sistema di valori e di costruzione sociale ed economica, e dall’altro i nemici. Siano essi i Black lives matter, facinorosi e non, gli scienziati à la Anthony Fauci e gli altri idiots, i professori liberal che corrompono le anime pure delle studentesse bianche della upper middle class, chi indossa la mascherina perché ha paura del virus, i giornalisti impertinenti, le donne che reclamano dignità e i lavoratori dei campi che rivendicano un salario adeguato al sudore versato. Per Trump, dunque, piegato su sé stesso come i peggiori modelli protezionisti novecenteschi dell’Europa, il nemico è interno, mentre per Reagan era prevalentemente esterno. Il tutto in un contesto in cui l’economia USA non va a gonfie vele come negli anni Ottanta, ma anzi si esacerbano le distanze tra zone rurali e zone urbane, tra la costa e le aree interne. E non c’entrano i Chicago Boys, i neocon o Steve Bannon, ma proprio la visione sociale dell’inquilino dello Studio Ovale.

Gli Stati Uniti al tempo di Trump sono un Paese diviso, profondamente diviso. Lacerato da segregazione sociale e razziale di fatto, disuguaglianze economiche in aumento, tensioni ideologiche crescenti e fratture tra generazioni.

La polarizzazione è cresciuta ed è potente, non solo tra i cittadini, gli elettori, ma anche in parlamento dove il voto segue sempre più linee di demarcazione ideologiche e partitiche anche a scapito di momenti di unità nazionale che pure si avevano in passato specialmente per alcuni ambiti di policy, dagli esteri alla difesa. Significativa la nomina della Giudice costituzionale A. Coney Barrett e del dibattito e del voto in Senato che ha confermato non solo la scelta di Trump, ma anche i pre-giudizi di entrambi i partiti. Un’altra scelta/scalpo fatta da Trump per marcare una legittima distanza, questa volta sul piano religioso ché l’uomo bianco, religioso e over cinquanta è il profilo principale dei pro-Trump. Non solo cliché.

Trump ha infine accentuato le divisioni all’interno del proprio partito. La dipartita di Dick Cheney, l’auto-censura e le dimissioni di Paul Ryan e la debolezza della schiera di cinquantenni in attesa opportunistica del post Donald, hanno reso inerme il partito repubblicano pur recalcitrante in talune fasi e per taluni ambiti rispetto all’attivismo dirompente del Presidente. Come nel caso della declamata, ma mai del tutto attuata stante il complesso sistema di checks and balances, riforma del sistema sanitario, quel Affordable Care Act, stigmatizzato quale Obama Care, che pure prova(va) a mettere un po’ di ordine nella jungla darwiniana dell’assistenza sanitaria USA, troppo sbilanciata e ingiusta come pure ammettono candidamente anche repubblicani severi e liberisti ortodossi. Un Presidente divisivo, poco istituzionale, e orientato a fare solo parte dell’America di nuovo grande rispetto alla necessità di un Capo inclusivo, protettivo e unitario. Tali qualità di padre/madre della Patria, o meglio di Commander-in-chief, sono cruciali soprattutto in un contesto di crescente polarizzazione ideologica che si traduce in due dati ragguardevoli: 1) il peso degli elettori con un profilo politico e ideologico sovrapponibile rispetto ai due schieramenti è diminuito drasticamente nel corso degli ultimi 20 anni. I Repubblicani estremi rispetto alla mediana dei Democratici sono il 95% del partito (64% nel 1994) e i Democratici ultra-liberal rispetto alla mediana dei Repubblicani rappresentano il 97% (erano il 70% nel 1994) (Pew Research Center). 2) la geografia elettorale segue questa polarizzazione dei partiti e degli elettorati. Un dato su tutti: nel 2016 il 61% degli elettori viveva in contee in cui il partito vincente ha ottenuto almeno il 60% dei voti (nel 1992 era pari al 39%) e solo il 10% delle elezioni a livello di contea è stato deciso da una distanza inferiore a 10 punti percentuali (1.096 nel 1992) (Cook Political Report). Una vera e propria ghettizzazione amplificata dalla differenza nel comportamento elettorale tra città/costa vs aree interne del Paese.

È dunque evidente che il 3 Novembre non si decidano solo le sorti della Casa Bianca, ma il ruolo degli Stati Uniti nel mondo. Let’s make US decent again!

Il Sud respinge l’opa di Salvini

Il Sud respinge l’opa di Salvini

Napoli, la prima città d’Europa a liberarsi autonomamente dal nazifascismo durante le celebri “quattro giornate”, magnificamente ricordate nel film omonimo diretto da Nanny Loy. La capitale Partenopea, ostile a ogni “invasione”, rappresenta l’ostacolo più arcigno al tentativo della Lega (Nord) di  avanzare al Sud, una mascarade guidata dal Sen. Salvini – di cui abbiamo parlato su queste colonne – e già fallita nei fatti perché mendace e infondata sul piano culturale.

Proprio al Sud la Lega rischia molto alle imminenti elezioni regionali, in un contesto complessivamente sfavorevole al Carroccio.

Sul piano internazionale l’alleanza ultra-conservatrice miete meno successi che in passato sebbene sia ancora solida nel complesso, e in molti ambiti, certamente quello economico-finanziario, continui ad essere influente o egemonica. Le singole realtà della rete del varipointo gruppo che trae ispirazione da D. Trump, J. Bolsonaro, M. Le Pen e dalla “foto” di Visegrád sono paradossalmente esposte proprio agli effetti dell’isolamento nazionalista. La torsione individualista inflitta dal Covid-19 ai sogni di geopolitica sovranisti ha mostrato l’irricevibilità teorica prima che pratica del modello che mira al ritorno di fiamma delle (piccole) patrie. Mentre la forza economica, militare, e la statura di altri leader consente pero’ di sopravvivere almeno sul piano nazionale, la Lega (Nord) paga l’irrilevanza della visione e dello spessore politico-culturale del senatore eletto nella Locride.

Stretta e ristretta dunque nella geografia dello Stivale, la Lega (Nord) punta a rimediare al crollo di consensi che la investe da un anno almeno. L’abbandono del Governo nell’estate in cui l’ex Ministro dell’Interno vestì i panni del bullo di periferia ha marcato l’inizio della fine per un progetto cui oltre alle citate idee e prospettive teoriche e culturali, manca oggi anche la copertura aerea delle risorse (latu sensu) derivanti da incarichi istituzionali. Il ricorso disinvolto ai benefici delle funzioni di Governo lascia spazio a pesanti costi organizzativi in una fase di allontamento di iscritti, simpatizzanti e donatori vari. Cui si sommano i problemi giudiziari del Sen. Salvini per la vicenda migranti nonché quelli legati alla galassia di procacciatori di affari legati al partito. Al netto del procedimento giudiziario che deve ovviamente garantire ogni cittadino, nel complesso queste condizioni “di contesto” non aiutano il Sen. Salvini né la Lega (Nord) a detrimento dell’imagine e dell’attrattività del partito.

Infine, il contesto locale, pur nelle specificita’, rimanda a un “terreno di caccia” complicato, per un leader che ha perso il momentum, e un partito scavalcato a destra da Giorgia Meloni, e con la crisi economica che ha sbiadito il tema immigrazione, palesando il balbettio leghista sulle proposte.

Da sempre Napoli ha rappresentato la gola stretta, ostico budello per il passaggio dei “barbari sognanti” verso i mari caldi e i bacini di voti di elettorali “volatili” del Sud. I segnali sociali che provengono dalla Sicilia, dalla Calabria, da Torre del Greco e da Napoli indicano che l’aria è cambiata davvero. La Lega torna al Nord.

In Campania la lista di Salvini andrà sotto al 5% scomparendo dai radar locali; in Puglia se Michele Emiliano fosse sconfitto a prevalere sarebbe il centro-destra a trazione “Alleanza nazionale”, da sempre forte in regione, e forzista, ossia la “Casa della liberta’” rivista e corretta, con la Lega a traino. La stessa dinamica si potrebbe avere nelle Marche, sebbene la portata del cambio di governo sarebbe più ampia, ma avrebbe comunque la Lega (Nord) in posizione ancillare. L’unica vittoria quasi certa, anche per abbandono dell’avversario, è il caso Veneto, in cui il centro-sinistra ha rinunciato troppo presto, assecondando l’adagio non verificato del “buon governo” di Luca Zaia. Uomo politico della Lega (Nord), o meglio della Łiga Veneta, militante da sempre, ma competitore diretto del segretario nazionale e percio’ non ascrivibile alle vittorie di Salvini. La Liguria delle fazioni a sinistra, delle vendette e dei ricatti, menù fisso dei progressisti, vede al vertice della Giunta un politico affine alla Lega e a Salvini che pero’ difficilmente potrebbe includere tra le vittorie stretegiche delle camicie verdi-brune.

Rimane la Toscana, diventata suo malgrado luogo di una finta sfida all’O.K. Corral, mentre in realta in un Paese “normale” si tratterebbe solo di una competizione locale. La vittoria della coalizione di centro-destra non sarebbe un attentato alla democrazia, al netto dell’insipienza delle proposte politiche della candidata alla Presidenza e degli strafalcioni sulla Storia. Si tratterebbe semmai di fisiologica, e persino auspicabile, alternanza al potere. Ma la sinistra, e Matteo Renzi, dominus della regione, ne hanno fatto un luogo e una contesa meta-simbolica in cui si gioca una partita nazionale  (come lo scorso anno in Emilia-Romagna) nella quale l’ex Presidente del Consiglio puo’ segnalare la sua rilevanza e indispensabilità. Ma in assenza di un progetto nazionale sifdante, e in difficoltà per la coabitazione con il populismo del Movimento 5 stelle, il PD inscena la consueta battaglia di civilta tra il “bene” e il “male”. Uno schema schmittiano, in atto stancamente dal 1994, che va bene a Salvini, a Renzi e al PD in cui tutti gridano alla liberazione.

Tuttavia, nella trasposizione cinematografica della Resistenza napoletana delle “quattro giornate” c’è un eccelso Gian Maria Volonté, che guida il riscatto, la dignità e il valore del Sud, e metaforicamente dell’Italia intera a pochi giorni dell’8 settembre. Fuori dai teleschermi non si intravede analogo afflato, ma solo lo scimmiottamento in chiave iper-realista. Ne riparleremo.