Piantedosi è la politica. Per interposta persona

La politica va spiegata con la politica. Per non parlare della montagna quando si è al mare, avrebbe detto Pier Paolo Pasolini.

🛑L’azione del Governo Meloni nei confronti dei migranti trova cristallina spiegazione guardando alla catena di comando, e si innesta nella scia delle idee propalate per decenni dalla Lega nord, da Alleanza nazionale e anche da Forza Italia. La legge criminogena BossiFini reca il nome di due capi delle principali forze della sedicente liberale coalizione dell’allora governo che usò lo scalpo securitario per rafforzare l’identità e saldare un legame tra due leader mai troppo d’accordo.

🔴Vent’anni di criminalizzazione della “clandestinità” assunta quale reato e bandiera da campagna elettorale fa da pendant alla colpevolizzazione della povertà, della disoccupazione, alla teoria degli “occupabili”.

🔵C’è un’Italia costernata, indignata, basita. Per la inumanità delle parole del Ministro dell’Interno. Ma non è proprio così; egli è tutto tranne che inumano, è umano nella banalità delle norme (non) applicate. Semplicemente, e terribilmente esprime una linea politica, seppur espressa come se stesse parlando in cucina. Per capire quelle dichiarazioni bisogna usare gli strumenti propri della politica e della sottesa e derivante cultura politica.

🔵Al Viminale torni un politico

La conferenza stampa di Piantedosi è un compendio di progettualità politica, solo tangenzialmente costellato di divagazioni sul piano etico-morale. Non si tratta di rincorrere una “brava persona”, ma di spiegare la politica con la politica. Non con le lacrime, le emozioni o la rabbia. Il Ministro dell’Interno è figlio e padre delle politiche connesse alla sicurezza di questo Paese, alla gestione dell’immigrazione e della sicurezza, anche quella davanti alle scuole e alle università. Nessuna sorpresa, alcun incidente, nessuna parola fuori luogo: la destra è così da venticinque anni. Le parole sono pietre e vanno lette con lenti politiche, pena ridurre a circostanza sfortunata, a tragedia, a malanno, a “fatto improvviso e sfortunato” come ha detto davanti al Copasir con sfrontatezza da travet il Ministro del Viminale, quanto invece è frutto di una politica pianificata di esclusione.

🟢Matteo Piantedosi, prefetto, carica di cui mena legittimamente vanto, è stato capo gabinetto anche dell’allora capo del Viminale, senatore Salvini, in una miscela ventriloqua in cui si fatica a capire chi parli e chi gesticoli. La politica ha abdicato al suo ruolo e ha appaltato a un burocrate la gestione degli affari interni che fu di Scelba, Taviani, Tambroni, Cossiga, Napolitano, per dire. È tutto qui il problema. Da un ministro dell’interno non mi aspetterei frasi sdolcinate, ma capacità di gestire adeguatamente le sfide interne, rispettando la Carta: è proprio questo il punto di debolezza di Piantedosi. La sua inadeguatezza patente nel gestire un dicastero pensando che si tratti di una prefettura, e non di un’agenzia dello Stato che deve governare con somma imparzialità, proprio perché il Viminale è l’istituzione più terza rappresentando essa stessa la Repubblica.

🟢Il corto circuito è derivato dalla ritirata della politica che da decenni si vergogna della propria ombra e delega a prestanomi tecnici pur di provare a riguadagnare credibilità che ormai langue. Piantedosi è legato a doppio filo ai Decreti Salvini del governo Conte I, orditi sull’altare dalla realpolitik grillina.

🟢Lotta politica non morale

Rincorrere Piantedosi sulla sua a-moralità è un gioco perdente perché ciascuno può avere una idea e una morale individuale, e finanche una opinione su come “gestire” gli immigrati. Il fulcro della questione è che in Calabria è mancata la politica, o meglio c’è stata una politica che ha chiaro in mente uno schema: i migranti sono un pericolo, l’Europa un peso, la solidarietà un crimine. Lo dicono, lo scrivono, lo urlano, lo praticano con coerenza gli esponenti della destra estrema in Italia da due decadi almeno.

🟡Non è importante che Piantedosi abbia o dimostri di avere umana pietas; è cruciale che espliciti qual è la politica, il programma di governo dell’immigrazione, della sicurezza, di lotta alla criminalità, di contrasto al diffondersi di aggressioni di stampo squadrista. Il Ministro Piantedosi ha una sua linea politica che lo rende complice e lo assolve perché egli è al contempo mandante, ma anche esecutore del suo mentore leghista, delle pressioni di Palazzo Chigi e delle tensioni delle coalizione. Insomma, ha troppi padroni cui rendere conto; e in mezzo restano schiacciati i diritti dei più deboli, italiani o non che siano non rileva. E anche la professionalità dei lavoratori delle forze di polizia che pagano lo scotto. Il dibattito sugli errori, sulle debolezze umane, sulla morale di Tizio o Caio, rischia di esaurirsi in breve tempo, di inabissarsi nel pettegolezzo, di sfociare nel disappunto e nell’imprecazione. La politica deve tornare al centro raccontando che la proposta di Piantedosi alias Salvini/Meloni è contro gli interessi dell’Italia e dell’Europa. Non può immolarsi solo e sempre il Quirinale.

🟡Sulla spiaggia di Steccato la distanza tra Viminale e Paese

La spiaggia su cui sono giunti privi di vita i corpi di settantasei tra bimbi e adulti si chiama “Steccato”, proprio come quello, politico, che esiste tra la percezione del Viminale e la realtà sociale del Paese. Sulle spiagge vicine a Crotone, pietà l’è morta. Vittima della (mala) politica. Ministro, usando le parole di un nobile figlio di Crotone, “rare tracce di tenerezza in un mondo che si nasconde nella propria incolumità”.

Distinti ma non distanti. Il Destino del centro-sinistra passa dall’Emilia-Romagna

Primarie Pd, i tour e le squadre dei candidati. Chi voterò e perché?  Scrivete al Corriere - CorrierediBologna.it

Bologna e l’Emilia-Romagna sono sinonimo di tante cose in politica, specialmente per la sinistra. Certamente lo sono per le primarie; le prime con una certa rilevanza si tennero sotto le Due Torri a ridosso delle elezioni comunali del 1999, che ebbero un esito funesto per il centro-sinistra pur non essendone la causa. Vennero poi le primarie di coalizione, o meglio l’elezione diretta del candidato alla guida dell’Unione per le politiche del 2006. E la regione con a capo Bologna si distinse per partecipazione e soprattutto perché espresse il candidato futuro Presidente del consiglio, Romano Prodi. Primarie ideate, promosse e sostenute da Arturo Parisi, tra i principali ispiratori del Partito democratico. Che ebbe il suo rito e mito fondativo (Parisi dixit) proprio ai gazebo delle primarie nel 2007. La fine (troppo) anticipata della segreteria Veltroni aprì le porte alla guida emiliano-romagnola: prima Dario Franceschini da vice in carica passò alla guida del partito, poi perse le primarie contro Pier Luigi Bersani, di cui restò vice. Dal 2013 l’ultima regione rossa ha ceduto il passo, fino ad oggi. Ha contribuito per anni, silente, laboriosa e leale a riempire il carniere elettorale, di tessere e finanziamenti, del PD nazionale. Ora è giunto il tempo dell’ultimo forte progressista che pur tra mille difficoltà, cedimenti e qualche errore, ha tenuto la schiena dritta alle ultime politiche.

Tra i quattro candidati alla guida del PD, tre sono espressione della Regione. Il presidente della giunta in carica, la sua ex vice e attuale deputata, e la deputata di lungo corso Paola De Micheli. Tra loro ci sarebbe potuto essere anche un altro emiliano, il sindaco della città felsinea, che per ora rimane risorsa e riservista dell’esercito democratico. La sfida pare segnata da un ballottaggio Bonaccini-Schlein. Sono epigono della gloriosa storia degli amministratori locali progressista, che ora giungono al potere del partito. Potranno raccontare del “modello” Emilia-Romagna, un atout importante, ma che potrebbe non bastare e non soddisfare gli elettori italiani, in una fase di cambiamenti radicali – interni ed internazionali – che richiedono un salto di visione, un cambio di paradigma anche rispetto al porto sicuro dell’eccellenza regionale. Il duo Bonaccini-Schlein non parte dal nulla, ma questa volta la sola Emilia-Romagna potrebbe non bastare a governare il Paese lacerato da troppe crisi concomitanti, dalle disuguaglianze nord-sud e da un disegno leghista di secessione imbellettato da orpelli giuridici, e che va rigettato. Per ora la campagna è partita in sordina, poco entusiasmo, comunque limitato ai militanti, qualche scaramuccia, ma nessun vero duello che viceversa potrebbe accendere animi e attivisti e lanciare la volata alla partecipazione. Bonaccini e Schlein dicono di raccontare due storie diverse, opposte, e i rispettivi campi addirittura richiamano le categorie del massimalismo e del riformismo, usandole quali armi contundenti o medaglie da esibire a seconda del contesto, per segnare una distanza. In realtà, Bonaccini e Schlein appaiono, almeno sino ad ora, meno lontani di quanto sembri, e questo potrebbe essere un elemento positivo. Distinti, ma non distanti, diversi, ma non divisi, avversari, ma non nemici. Infatti, sebbene non sia la prima volta che l’Emilia-Romagna esprima parte importante della classe dirigente del PD, potrebbe essere l’ultima se all’esito del voto si materializzasse l’ennesima frattura tra vincitori e perdenti, iattura nella storia della sinistra italiana. Il passato e il futuro del PD ri-passano dalla via Emilia. In attesa di un confronto all’… Emiliana.

Lazio e Lombardia, quanto conta la scelta dei candidati alla presidenza della regione

  • L’elezione popolare diretta del presidente del governo regionale ha accentuato dal 1995 i tratti “personalizzati” delle elezioni; gli elettori in modo significativo assumono la propria decisione (anche) in base alle caratteristiche dei candidati alla guida della giunta.
  • La quota di elettori che vota il solo candidato presidente è pari in Italia, nelle regioni a statuto ordinario, a circa il 9 per cento con un valore prossimo al 10 per cento per i candidati di centro-sinistra, per i quali si registra un trend crescente rispetto a quello per il centro-destra in calo dal 1995 (-5 punti percentuali).
  • Nel complesso i candidati del centro-sinistra ottengono in media risultati migliori in termini di voti raccolti sulla propria figura rispetto agli omologhi di centro-destra.

Lombardia e Lazio saranno test elettorali importanti per entrambi gli schieramenti posto che sono interessati quasi 12 milioni di elettori, oltre un quarto del totale nazionale. La Lega (Nord) mira a confermare il suo candidato in Lombardia, e in Lazio il Pd cerca di bloccare una emorragia di consensi e di senso.

Due appuntamenti cruciali che chiamano direttamente in causa le alleanze, i programmi, ma soprattutto i candidati alla carica monocratica.

Il mio editoriale per Domani lo potete leggere qui

Il ruolo del presidente (Mattarella) e i rapporti con il governo (Meloni)

La standing ovation al Teatro alla Scala per il Capo dello Stato ha messo in ordine politico e di consenso quella che è la gerarchia tra cariche istituzionali. Le azioni e gli interventi del presidente della Repubblica Sergio Mattarella sono state oggetto di valutazione in questa fase di nuova legislatura e di varo del nuovo Governo, il quale sul versante esterno ed estero ha avuto qualche problema diplomatico. Il tema del ruolo presidenziale rimanda dunque alla ri-elezione del presidente Mattarella, che ha in parte riaperto un dibattito politico che è a tratti parso appare lunare. Da un lato si levano crociate preventive contro ogni forma di discussione su elezioni che contengano una legittimazione popolare diretta, salvo poi evocare e invocare nomi “terzi”, esterni al Parlamento, e poteri esecutivi più stringenti ed efficaci; dall’altro vengono millantati attacchi alla Carta costituzionale, minacce alla democrazia e stravolgenti rischi di creazione di pericolosi “precedenti”. Quasi fossimo in una situazione di “common law”. Davvero mai si era vista una potenziale violazione costituzionale allorché la lettera della Costituzione fosse ampiamente rispettata. Per altri, infine, verrebbe tradito lo spirito della norma, ma tale categoria ascetica rimane vaga, e comunque soggetta a legittime valutazioni politiche piuttosto che a stringenti vincoli legislativi.

Qui l’articolo integrale uscito sul mio blog per l’Huffington Post

Le elezioni amministrative possono far cadere una Monarchia. Contano, eccome

Le elezioni amministrative non contano. Anzi sì.

Nel 1931 la Monarchia spagnola cadde per colpa del pessimo risultato delle elezioni amministrative che avevano visto la vittoria di molti candidati repubblicani. Le politiche successive del 1933 videro la sconfitta della “sinistra” e la vittoria dalle destre alle elezioni in cui votarono per la prima volta le donne. Quindi le elezioni locali contano oppure no?

In Italia, come spesso capita, dopo il voto del ballottaggio scorso, si è aperta un “dibattito” sensoriale tra esultatori del voto espresso e negazionisti della sconfitta. Le elezioni locali, contano eccome. Altrimenti non si spiegherebbero le dimissioni del Presidente Massimo D’Alema nel 2000 dopo le regionali condotta con la “nave azzurra” da Berlusconi. E la successiva sconfitta, eclatante del centro-sinistra di Rutelli l’anno dopo. E non ci sarebbe stata ragione di accanirsi contro i perdenti dopo le comunali “storiche” del 1999 a Bologna, o di esultare per la storica vittoria del centro-sinistra a Verona o a Catanzaro. O la rimonta del centro-sinistra che dal 2009 in poi vinse tutte le amministrative ed elezioni “minori”. E gli esempi sarebbero decine. Si tratta di confusione teorica e logica. Ogni voto ha il suo peso, che certamente non va confuso, ma nemmeno sottovaluto.

Le regionali e amministrative del 1975 generarono quello che fu definito un “terremoto” perché spostò l’asse delle forze in campo a favore dei comunisti, e le europee del 1984 permisero al PCI di superare, forse con una vittoria di Pirro, la DC, e galvanizzò un partito già in grosse difficoltà da almeno un lustro.
Anche a livello comparato è così. Le elezioni di metà mandato negli Stati Uniti hanno speso rappresentato un cambio di ciclo politico, oltre che strumento per introdurre il governo diviso. Del resto, l’attenzione per il voto del prossimo novembre rappresenta il termometro del consenso per Biden ed eventualmente della salute politica dei Repubblicani dopo il disastro del 2020.

Le elezioni amministrative sono consultazioni di “secondo ordine”, perché non decidono direttamente il governo nazionale, ma hanno un peso. Per gli elettori, motivandoli e mobilitandoli; per i partiti, offrendo spunti per ripartire, correggere l’agenda, modificare il processo di reclutamento; per i leader politici, per rilanciare la propria azione, definire strategie comunicative e chiudere diatribe interne o tacitare sfidanti. È del tutto evidente che il voto per il comune X non sia assimilabile al voto nazionale, al voto nell’intero paese. Ed è altrettanto pacifico che il consenso espresso a livello municipale risente di fattori diversi da quelli che incidono sulla scelta elettorale allorché si decida per il Parlamento. Tuttavia, è bene considerare che spesso non si vota in un solo comune (ad esempio nell’ultima tornata si è votato in un ottavo di essi), ed inoltre alcune città rappresentano dei test significativi: per popolazione, storia politica, collocazione geografica, etc. Rappresentano cioè delle sentinelle, inviano dei segnali non molto criptici circa il movimento di chi vota, e anche di chi si astiene. L’impatto della “storia e della geografia” è rilevante, perdere o vincere a Milano non è decisivo per le politiche, ma indica un chiaro segnale. Nel 2016, ad esempio, il Movimento 5 stelle vinse tra le altre città, a Torino e Roma, e ne seguirono nei rispettivi campi giuste rivendicazioni di successo e amare considerazioni sulle ragioni della sconfitta.

Le elezioni comunali del 1993 sono paradigmatiche. Non fu colpa del voto nelle principali città italiane a “confondere” i politici, ma furono quei politici, mal consigliati, a decifrare molto male il messaggio delle urne. L’errore, per il centro-sinistra fu marciare diviso, separato dal centro, mentre Berlusconi applicò alla perfezione la logica, e la meccanica, del sistema elettorale appena introdotto. Il centro-sinistra pensò di trasfondere il dato molto positivo del voto nei comuni di Roma, Milano, Venezia, Torino, Napoli e Palermo, nella campagna dell’”allegra macchina da guerra” guidata da Achille Occhetto.

Nel passaggio dalle elezioni “locali” a quelle nazionali vanno debitamente tenuti in conto diversi fattori. Quelli che Maurice Duverger chiamava gli effetti psicologici e meccanici su partiti, elettori e candidati. I quali si adattano al contesto, al sistema elettorale, alla posta in palio. I partiti selezionando il tono e i temi della campagna nonché i candidati. Questi ultimi calibreranno la loro azione comunicativa enfatizzando le loro qualità ovvero quelle del proprio partito/coalizione. Infine, gli elettori risentiranno della propria storia sociale, politica e culturale, ma anche, e molto in tempi recenti, di elementi di contesto: le condizioni economiche, le caratteristiche dei principali candidati nazionali, la situazione del paese, etc. Il tutto in un crescente ambito di volatilità elettorale, ossia di mutamento di opinione elettorale tra due consultazioni consecutive. Come dimostrano i dati emblematici di M5s, Lega e Fratelli d’Italia.

Il voto della scorsa settimana è chiaro: la destra ha perso e la sinistra ha vinto. È successo il contrario in altre occasioni. Non esiste nessuna relazione causativa tra il voto del 2022 e quello del 2023. Ma esistono tanti indicatori che se interpretati, se legati assieme, se gestiti da esperti e non da imbonitori da social media, possono fare la differenza. Anche le elezioni amministrative nel loro piccolo si … fanno valere.
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