La Destra conservatrice che manca all’Italia

Il mio editoriale per il RIFORMISTA

Tornate nelle fogne. Carogne fasciste. Molti dei gerarchi, degli esponenti del regime e del partito nazionale fascista erano effettivamente vili e meritavano anche di essere estromessi da ruoli politici, istituzionali e sociali apicali nel sistema repubblicano successivo alla Liberazione e alla nascita della Repubblica. È così sostanzialmente avvenne, sebbene l’epurazione fu parziale nell’azione del governo Parri e insieme all’amnistia del ministro Togliatti resero l’esclusione di quanti coinvolti criminosamente con il regime mussoliniano meno efficace. La messa al bando del disciolto partito nazionale fascista e la limitazione dei diritti politici (in deroga temporanea all’articolo 48 della Costituzione) per i capi responsabili del regime furono un compromesso, ma anche un chiaro segnale di liberazione e di tentativo di riconciliazione nazionale. Di fatto, poi, gli epigoni del fascismo, riorganizzati nel Movimento sociale italiano, furono esclusi dall’accesso al governo, insieme al PCI – sebbene in forme limitate ed evolute nel tempo -, nella nota conventio ad excludendum, che impediva appunto l’ingresso alle stanze governative per i partiti antisistema. 

La guerra di Liberazione dal nazifascismo, la guerra civile, dall’8 settembre del 1943 al 25 aprile del 1945 non era stata per nulla superficiale e in varie zone del Paese, specialmente al Nord, aveva reso sanguinose le ferite sociali profonde generate dal fascismo e dal conflitto mondiale. Come disse con celeberrima retorica Sir Winston Churchill di lì a poco calò una cortina di ferro tra l’Est e l’Ovest, e in tutto ciò l’Italia faceva, letteralmente, da confine. La Guerra Fredda ebbe inizio e con essa la necessità di Stato, derubricata ipocritamente a “ragione collettiva” inibì ogni serio, diffuso, condiviso processo di elaborazione dell’onta autoritaria, delle leggi razziali, dell’odio, della guerra. La memoria non fu e non divenne storia comune, rimarcando distanze e distinguo che acuirono diffidenze, avversione e violenza. L’”armadio della vergogna”, un mobile addossato con le ante a una parete affinché non disvelasse il contenuto di documentazione inerente alle stragi nazifasciste del dopo Armistizio, segna simbolicamente quel rifugio della memoria, tentativo di scappare dal, senza elaborare il Ventennio, e gli interrogativi circa la natura del “consenso”. In Germania i figli interrogarono i padri e i nonni circa le loro attività nel periodo totalitario, mentre in Italia il contesto nazionale ed internazionale, insieme a una congrua dose di viltà e malcostume morale, frenarono una seria discussione sul passato, e come superarlo senza dimenticarlo. 

I partiti dell’arco costituzionale accettarono la presenza di un partito neofascista, che non rinnegava quasi nulla del fascismo, ma lo relegarono giustamente ai margini. Pertanto, la Destra conservatrice non ha avuto solide basi in Italia a differenza del resto dell’Europa occidentale, per i citati fattori nazionali ed internazionali. Il MSI era una formazione legata a doppio filo con il regime fascista, dal punto di vista ideologico e personale. La “politica del doppiopetto” di Giorgio Almirante solo in parte scalfì l’immagine di partito nostalgico, spesso ambiguamente troppo vicino ad ambienti eversivi, quanto meno fino alla campagna sulla “doppia pena di morte” del 1978 in piena emergenza terroristica. Ma l’MSI non procedette mai a rescindere i legami, personali e culturali, con il Ventennio. Non voleva farlo, non sapeva farlo, e in parte non poteva farlo ingabbiato nella Guerra Fredda italiana. Il progetto di Destra nazionale naufragò incagliato negli anni di piombo, mai rivisitati criticamente, mai condannati senza appello. 

Quel ignavo “non rinnegare, non restaurare” propugnato da Almirante che teneva in mezzo al guado il partito neofascista, in un gioco di specchi con il nemico comunista che permetteva alla Democrazia cristiana di ergersi perennemente a baluardo verso gli estremismi. Il piduista Silvio Berlusconi e il mutato scenario internazionale consentirono al MSI di accedere al mondo istituzionale che conta. Molto lavoro fu svolto da Gianfranco Fini che osò sciacquare panni e fez nell’acqua di Fiuggi nel 1995, eliminando i residui fascisti, emarginando l’ala oltranzista e revanchista. Mise Almirante in una teca e provò a creare una destra “normale”. Descrisse il fascismo come male assoluto, visitò Gerusalemme chinando il capo e aprì ai conservatori europei. L’ambizione fu però bloccata da colui che aveva aperto le porte delle istituzioni: Berlusconi espulse Fini reo confesso di tentato golpe e rigettò i nostalgici nelle mani del passato. L’eredità del MSI-Alleanza nazionale, mutatis mutandis, è stata raccolta, rinnovata e rilanciata da Giorgia Meloni. La quale ha le potenzialità per fagocitare la Lega Nord e diventare egemonica nel campo della Destra. Ma per farlo non dovrebbe tornare a un aureo passato, a “ordine, disciplina e gerarchia”, alla triade autoritaria “Dio, Patria e Famiglia”; non all’antico, ma continuare nell’azione di rinnovamento, di modernizzazione. 

Per capire se intenda diventare politicamente adulta sarà utile verificare se Meloni punta a costruire una forza della destra repubblicana, una ridotta della Lega Nord, una costola in franchising del partito di Marine Le Pen (che si ispirò al Msi…), ovvero una sezione fuori tempo e nemmeno troppo edulcorata di Alleanza nazionale. Per divenire centrali nel campo di centro-destra Fratelli d’Italia dovrebbe operare scelte radicali. Nessuna ambiguità sui diritti civili, niente indulgenze su blasfeme frasi di ex colonnelli aennini ebbri, né azioni squadriste come quelle dei delatori di immigrati “citofonatori” emuli di Salvini. La Destra repubblicana italiana deve ri-scoprire De Gaulle, Kohl, Thatcher, … non satrapi postsovietici, orientali o i populisti nazionalisti di estrema destra che pensano al 1918 con nostalgia. Casa Pound va abbandonata, nella forma e nella sostanza, al pari del tentativo di recuperare frange dell’estrema destra. La legalità e l’antimafia ribadite anche nelle scelte dei candidati locali. Il patriottismo sano può avere spazio insieme al ruolo dello Stato, dalla scuola all’economia, ma non può esserci acritica difesa delle forze dell’ordine anche quando ci sono evidenti reati e responsabilità personali.

L’autorevole intervento di Ernesto Galli della Loggia sul Corsera indica alla destra un possibile percorso modernizzatore che però, in realtà, rischia di risucchiarla negli anni Sessanta/Settanta. I concetti evocati rimandano alla destra postfascista e non a quella moderna e conservatrice. E proprio sull’antifascismo, mai “di professione”, ci mancherebbe, ma sempre necessario per le ragioni di italica smemoratezza, Fratelli d’Italia dovrebbe fare di più, molto. 

La Storia repubblicana include il 25 senza cui non c’è il 2 giugno, e su questo andrebbe fatto uno sforzo intellettuale. Nella sua risposta a Galli della Loggia Meloni quasi ribadisce il carattere fieramente identitario della Destra d’antan, mentre lo sforzo andrebbe compiuto nella direzione opposta a quella evocata. Non abbia paura di mollare gli ormeggi. Per costruire una Destra moderna Meloni dovrebbe definitivamente abbandonare gli ululatori di Eja! Eja! Alala e le schegge missine che continuano a infangare la storia patria rimestando in presunti allori del fascismo. Meloni dica chiaramente che non concede credito a millantatori di patrie da difendere, che non ci sono navi da affondare, porti da chiudere, manifestanti da manganellare e centri sociali da sgomberare. Punti alle idee della destra repubblicana, ha molti spunti da cogliere: dal partito repubblicano americano, ai think tank a esso legati, dalla destra francese a quella tedesca e persino spagnola e scandinava. Colleghi che frequenta meritoriamente visti i suoi recenti incarichi. Il suo contributo passerebbe alla storia come modernizzatore, viceversa sarà derubricato a transeunte e il partito avrà scarsa fortuna. La competizione con l’estremismo leghista non giova al partito ed ha breve respiro. Lo spazio elettorale per i conservatori è ampio, ma Fratelli d’Italia ha la zavorra del passato; presunto o reale che sia molti elettori lo percepiscono. 

Che i postfascisti del terzo Millennio “escano dalle fogne” per sempre non può che essere salutare per il Paese. Anziché rigettarli nelle mani del fanatismo vanno accolti e sostenuti i passaggi riformatori, se verranno. 

Lega Nord. Parola di Shakespeare

Editoriale per DOMANI

«Cosa c’è in un nome? Ciò che chiamiamo rosa anche con qualsiasi altro nome conserverebbe sempre il suo profumo». Giulietta, rivolgendosi al suo amato Romeo nell’omonima celebre opera di W. Shakespeare, segnala che le persone e le cose conservano la loro identità al dì delle convenzioni con cui le identifichiamo.

Con molta meno poesia, mutatis mutandis, il fatto che la Lega Nord abbia tentato di cambiare nome, in taluni casi lo abbia persino fatto, e che si sia proposta quale partito della nazione e post-ideologico, non ne nasconde l’essenza. Non basta per superare la natura, il carattere ontologico, genetico, di partito regionale, regionalista e di estrema destra. La Lega Nord è nata per l’intuito di Umberto Bossi sull’asse dell’anti-meridionalismo e dell’anti-centralismo, puntando a sfruttare la frattura (il cleavage) centro-periferia, ove ovviamente Milano rappresentava la periferia politica, non essendolo sul piano economico/finanziario. Le oscillazioni programmatiche, alleanze, proposte, e leadership che dal 1991 hanno segnato la vita politica e parlamentare del Carroccio non hanno però mai messo in discussione il tratto identitario: l’avversione per il Sud. A volte i toni sono stati mitigati, il senatore della Repubblica Matteo Salvini ha tentato di celare il carico di rancore e risentimento che il suo partito ha per decenni alimentato avventurandosi in complimentosi atti di riguardo per i manicaretti della tradizione regionale post borbonica. Una manovra di corto respiro ché invece la svolta avrebbe implicato scuse formali, pubbliche, per la contumelia contro i terroni, “Roma ladrona” e il lassismo dei cittadini extra-lombardoveneto. Non dico inginocchiarsi come Willy Brandt, ma quantomeno rinnegare il precedente approccio razzista, con parole, opere e omissioni. E invece, nonostante le illusioni o la naïveté di troppi, il tratto nordista, anti-nazionale e anti-statale del partito permane, perché nessuno ha inteso modificarlo.

Il bagaglio ideologico della LN è intriso del tratto originario che lo vincola indissolubilmente al territorio da cui è giunta sul proscenio. Il partito ha prima sostenuto l’Europa delle Regioni per poi lanciare strali contro Bruxelles e abbandonare non già la moneta unica quanto la prospettiva federalista, ossia di unificazione di paesi per secoli combattutisi. L’euroscetticismo infatti spiega molto del consenso al partito. Ne consegue l’asse con i satrapi dell’est Europa, i nazionalisti di ogni risma e la ferocia del darwinismo sociale. Il tutto coniugato in prospettiva sub-nazionale e la difesa dell’interesse del Paese solo bieca facciata elettorale. Prima il Nord, lo slogan della campagna elettorale regionale di R. Maroni nel 2010, dimostra che le radici sono salde e profonde. E infatti gli attacchi alla leadership del partito vertono proprio sul “tradimento” delle origini. Leggi tutto “Lega Nord. Parola di Shakespeare”

Lo spettro di Orban si aggira ad Est, rischio sovranismo per l’Ue

Editoriale per il RIFORMISTA

L’Italia provinciale scopre che esiste l’Ungheria. E lo fa da par suo. Inneggiando al satrapo di turno ovvero schierandosi contro l’ennesimo attacco al cuore della Democrazia. E, pertanto, non capendo nulla e proponendo niente. Per anni ad Est del Reno sono successe cose commendevoli sul piano dell’attacco alla società liberale, ma a parte voci isolate, ha prevalso la realpolitik intrisa di vuoto strategico, di prospettiva. Il processo di allargamento dell’Unione europea dopo il 1989-1991 è stato un passaggio rilevante, cruciale, per consolidare il processo di integrazione e per taluni il disegno federale e federalista continentale. Nei primi lustri post caduta del Muro di Berlino il consenso popolare per l’adesione all’Ue era ampio e diffuso, sostenuto dall’anelito libertario e dalle cospicue risorse materiali e simboliche derivanti dalla membership.

Lo spettro di Orban si aggira ad Est, rischio sovranismo per l’Ue

Il cosiddetto Quinto allargamento iniziato nel 2004 era ambizioso e doveva coronare il progetto (per taluni il sogno e l’aspirazione) di ricomporre il continente europeo dopo le lacerazioni della Guerra Fredda derivanti a loro volta dalla Seconda guerra mondiale. Ossia l’area geografica più sanguinosa al mondo che, su basi religiose prima, nazionaliste e ideologiche poi, si era letteralmente massacrata dando vita anche a conflitti planetari. Definite persino “guerre civili” (Raymond Aron ed Ernst Nolte) sottolineando la comune matrice culturale dei popoli che le combatterono. L’adesione europeista offriva due potenti incentivi: uno simbolico, l’altro materiale. Il primo permetteva a popoli piegati per oltre mezzo secolo al giogo nazista e sovietico di affrancarsi entrando nel gruppo delle Democrazie “avanzate” da sempre viste come un modello alternativo alla catena cavernicola del socialismo reale; il secondo, di conseguenza, raccontava il desiderio ravvicinato del benessere cosmopolita e capitalista, immediato, individualista e totalizzante.

Le “promesse non mantenute” della Democrazia europea – direbbe Norberto Bobbio – sono quelle di un debole contrasto alle grandi Corporations del web (“interesse di parte su quelli politici”), la persistenza di oligarchie (ridotta partecipazione al processo decisionale, spesso troppo opaco, “cripto governo” per Bobbio), il cittadino non educato alla politica, non incluso. Le occasioni mancate sono varie, al pari dei successi. In periodi eccezionali però manca il salto decisivo, dal welfare rafforzato, al modello di sviluppo, dai diritti, all’ambiente, agli ideali di democrazia da tradurre non solo in politiche pubbliche, ma in scelte strategiche. Senza dimenticare lo straordinario esempio che l’Unione rappresenta nel mondo. Potenza commerciale, esempio di civicness, prosperità, democrazia, pace. Questioni troppo rapidamente sorvolate o persino assunte quali pre-condizioni tra le “promesse” europeiste e quindi sussunte nella bandiera a dodici stelle.

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La Lega oltre la protesta, quasi al governo

Gianluca Passarelli e Dario Tuorto (Mulino)

Era nelle cose che la Lega avanzasse e riempisse un vuoto: il responso elettorale del 4 marzo ha sancito il successo della strategia di Matteo Salvini. Il 17% su scala nazionale, che fa della Lega la terza forza politica del Paese a un solo punto di distanza dal Pd; è il risultato più alto nella sua storia, ormai trentennale. Ma il successo più importante è il sorpasso netto su Forza Italia, in un quadro di rapporti di forza interni alla coalizione rovesciati al punto da rischiare di destabilizzare un centrodestra senza i numeri per governare da solo. Siamo qui in presenza di un vero e proprio ribaltamento del forza-leghismo lucidamente delineato da Edmondo Berselli. Siamo al leghismo-forzista, ma la sostanza non cambia: è in quel magmatico mondo ostile al civismo repubblicano che Salvini ha fatto il pieno.

Francamente non c’è da sorprendersi, almeno tra chi studia il partito da tempo. Gli elementi sociali, politici ed elettorali per l’avanzata leghista c’erano tutti. L’exploit della Lega parte dal 2010 e continua nei due anni successivi, nonostante gli scandali e la successione a Bossi. In questa fase convulsa del partito Salvini inizia a costruirsi uno spazio politico autonomo sino alla scalata a segretario federale. La linea dirigista imposta dal nuovo leader lo porta a marginalizzare i rivali, a partire da Flavio Tosi per arrivare allo stesso Roberto Maroni che pure aveva legittimato la sua ascesa.

Dopo il 2012 la Lega si sposta definitivamente a destra. Se negli anni Novanta i voti provenivano soprattutto dal centro dello spettro politico-ideologico, nel periodo successivo si assiste a uno slittamento progressivo dell’elettorato su posizioni più estreme. Questo cambiamento investe anche i militanti, in particolare i nuovi iscritti; una componente meno interessata alle questioni del regionalismo e dell’economia e sempre più “estremista”, intollerante, autoritaria. Già da alcuni anni, dunque, la Lega si è andata configurando come una formazione xenofoba e politicamente violenta. Nonostante ciò, in Italia, la classe dirigente e la borghesia hanno faticato ad accorgersene trattando con indulgenza un fenomeno allarmante. In altri Paesi, più civili e meno ipocriti, chi occupa posizioni chiave nella società e nella politica prende le distanze dall’estrema destra. Uno per tutti: Jacques Chirac nel 1997 decise di non stare con Le Pen per disciplina repubblicana, al costo di perdere le elezioni.

Coerentemente con la strategia di riposizionamento ideologico, la Lega compie, sul piano programmatico, una torsione altrettanto netta, passando da movimento federalista e autonomista a partito nazionale. La metamorfosi imposta da Salvini comporta l’abbandono tattico della battaglia per la secessione della Padania. L’indipendentismo lascia spazio al sovranismo e ai temi classici della destra: lotta alla mondializzazione, all’immigrazione, all’Europa della moneta unica e dell’accoglienza. Queste battaglie contro il “buonismo democratico” erano già presenti da tempo, ma è solo nella stagione più recente che vengono inquadrate in una cornice nuova, in cui l’idea di partito del Nord e la stessa questione settentrionale si stemperano dentro un progetto di nazionalizzazione dei programmi, delle parole d’ordine e, soprattutto, dei consensi. Mai come nel 2018 la Lega appare vicina a realizzare tale obiettivo, soprattutto sul piano elettorale. I risultati del voto indicano come il partito si sia consolidato nelle aree tradizionali (oltre il 30% nel lombardo-veneto) e sia cresciuto nelle regioni rosse (lo aveva fatto anche in passato ma non in modo così generalizzato, con un avanzamento che lo porta a sfiorare il 20% e a sfidare il Pd). Il dato nuovo è lo sfondamento nelle regioni del Centro Italia. È in quest’area, mai leghista in passato, che si coglie la portata del cambiamento: la più netta ed esplicitata connotazione ideologica ha aiutato presumibilmente a rafforzare il legame con frange di elettorato ex o post-fascista, storicamente radicate in questi territori e alla ricerca di una nuova e più forte rappresentanza. Infine, la Lega arriva anche al Sud, sebbene riesca a insediarvisi solo parzialmente.

Quali sviluppi politici si profilano per la formazione di Salvini? Occorre distinguere il piano dell’attualità da una riflessione più ampia. Se ci si concentra sugli esiti del voto appare chiaro che la virata a destra abbia consentito al partito di legittimarsi come forza trainante della coalizione. Tuttavia, se si sposta lo sguardo in prospettiva, emergono alcuni dubbi sulle reali capacità della Lega di sfruttare appieno questa congiuntura favorevole. Oggi il partito domina il centrodestra: a centro assorbendo i voti di Forza Italia, a destra cannibalizzando l’area di Fratelli d’Italia e dei gruppi neo/post-fascisti. Questo piano egemonico ha prodotto un quasi scontro con Berlusconi. Per quanto nella storia della Lega le relazioni con l’uomo di Arcore siano state spesso ambigue, la legittimità di comando del leader di Forza Italia non era stata mai messa in discussione. Al contrario, Salvini ha surclassato l’alleato sino a condizionare il posizionamento politico del suo partito, che finisce sì per sposare la linea leghista, ma in uno scenario in cui il voto moderato diventa minoritario.

L’incognita più grande sul futuro della Lega, e più in generale del Paese, deriva però dagli esiti stessi del voto. A differenza del 2013, la spinta anti-establishment si è fatta maggioranza e ha premiato entrambe le anime della protesta: una post-ideologica del Movimento 5 Stelle e l’altra radicalmente schierata a destra della Lega. Queste due espressioni del disagio elettorale faranno fatica non solo a governare assieme, ma anche a ricomporre le istanze di cambiamento avanzate dagli elettori in una direzione unitaria sul piano sociale e territoriale. Se è vero che la Lega è riuscita a intercettare una parte dell’elettorato 5 Stelle al Nord, è anche vero che al Sud il M5s rappresenta un argine per ora invalicabile che impedisce al leghismo di farsi progetto realmente nazionale. A prescindere dalla comune critica all’Unione europea dei burocrati, all’immigrazione incontrollata o alle caste della vecchia politica, Lega e Movimento 5 Stelle ottengono successi separati. Le mappe dei collegi, nella loro nettezza cromatica, consegnano la fotografia di un Paese spaccato in due, secondo linee divisorie che di nuovo non hanno proprio nulla: il Nord aggrappato allo sciovinismo leghista per difendere posizioni di vantaggio relativo e il Sud che demanda al ribellismo a 5 Stelle la speranza di neo-mediazione politica. L’estrema destra è sull’uscio di Palazzo Chigi. Sull’altro Colle però sono vigili.