Il PD, gli uomini e i pesci

Editoriale per Corriere della Sera (Bo)

Le sconfitte possono fornire grandi insegnamenti. Mentre il successo, se non governato, può condurre fuori strada. La vittoria alle elezioni regionali per il centro-sinistra e il Partito Democratico comportava un rischio potenziale, maggiore per certi versi persino di quello derivante da una storica sconfitta. Il pericolo della perdita di memoria, della cancellazione, della rimozione, del superamento dell’ostacolo congiunturale rimanda gli individui, le organizzazioni, e quindi anche i partiti, ad una condizione di scampato pericolo, di soddisfazione e appagamento rispetto allo stato ansiogeno che precede la prova cruciale. Da una prostrazione raccontata, da proclami di modestia e autodafé nell’imminenza dell’esame elettorale si puo’ facilmente passare alla rimozione, all’arroganza, e quindi alla reiterazione di comportamenti consolidati.

Dopo oltre un anno non è giunta notizia di approfondimenti ragionati, lunghi, critici, profondi, indipendenti e conflittuali sulle ragioni della vittoria. Proprio i successi contengono, sempre, le cause profonde delle sconfitte. Per non continuare a “sorprendersi” delle avanzate della Lega (Nord), delle scarse prestazioni del centro-sinistra che in tre lustri almeno ha visto erodersi non solo il consenso elettorale, ma anche la penetrazione sociale dei suoi valori, la rete di connessioni civica ossia di quella sub-cultura “rossa” che non era affatto composta solo di voti.
Dunque, discutere in sedi pubbliche le cause della penetrazione sociale, culturale e infine, solo infine, elettorale della Lega (Nord). La quale continua a macinare consensi, anche se perde le elezioni. Nel 2019, alle celebrate consultazioni regionali, il partito guidato pro tempore dal Sen. Matteo Salvini ha prevalso in 4 province su 9 dell’Emilia-Romagna. La Lega è giunta prima in tutti i comuni della provincia di Ferrara, in quasi tutti (tranne uno) in quella di Piacenza, in quasi tutti (tranne due) in quella di Parma e in quasi tutti (tranne 4) in quella di Rimini. Inoltre, è stata primo partito in 21 comuni di Forlì-Cesena, 13 Reggio Emilia, 28 di Modena, 12 di Bologna e 2 di Ravenna. Ossia il partito di Salvini è giunto primo nei due terzi dei municipi (63% dei casi, se vi pare poco; erano il 33% nel 2018 e l’8% nel 1996). Infine, la coalizione progressista ha perso 3 seggi consiliari rispetto al 2014, mentre la Lega ormai ha fagocitato l’intera opposizione. Ma tutto questo è passato in cavalleria perché l’importante, come scrivono e dicono in privato in molti, in troppi, è vincere. Anche senza convincere. Basterà aspettare la prossima buriana per spaventarsi di nuovo, per additare il nemico alle porte, per invocare il sostegno dei cittadini contro la presunta presa della fortezza Bastiani da parte dei barbari. Che poi tali non sono. Si tratterebbe di alternanza, fisiologica in democrazia.
Vittoria elettorale quale viatico senza minimamente mettere a fuoco le distorsioni, senza porre al centro dell’analisi la società, le sue contraddizioni, i messaggi che invia – palesi o subliminali -, le reinterpretazioni necessarie alla luce dei cambiamenti strutturali del XXI secolo. Il PD sembra aver fatto tutto questo d’emblée, subito, senza remore. Avanti, verso la prossima battaglia con slancio ardito e fiducia nelle magnifiche sorti e progressive del “buon governo locale”. Ma alla prossima sconfitta, inevitabile nella società delle appartenenze flebili, statene certi, emergerà di nuovo lo stupore e lo sconcerto, misto a sdegno per il comportamento elettorali di molti che proprio non avranno capito quanto il centro-sinistra sia “superiore”:
La paura di perdere pur contro un avversario modesto è stato il fattore scatenante della mobilitazione. Ma queste paure sono ricorrenti, e del resto la storia della Lega Nord e del centro-destra in Regione parlano chiaro. La Lega governa decine di comuni, è primo partito in molte aree specialmente “interne” e puo’ contare su alleati potenti quali le paure (i diversi, la globalizzazione, la città, etc.), i mutamenti sociali in un contesto da ridisegnare, la crisi economica e la disoccupazione. Che sono fenomeni relativamente inediti e recenti a queste latitudini, ma che proprio per questo tendono ad essere paradossalmente più incisivi.
La lettura della vittoria, effettivamente rapida e superficiale, è stata sagacemente agganciata alla prestazione extra-ordinaria del candidato Presidente del centro-sinistra e ad una non bene specificata centralità del movimento delle cosiddette “Sardine”. Se, dunque, Stefano Bonaccini è l’alfiere della vittoria del centro-sinistra, e se una parte rilevante della vittoria è da ascrivere alla capacità di amministratore e di campaigner del Presidente della Regione, non resta che confermare che i “Problemi” permangono. Si sarebbe trattato cioè di una vittoria “personale”, della capacità di un uomo solo di fare la differenza. Viceversa, taluni, come Nadia Urbinati, hanno fornito un’interpretazione della vittoria del centro-sinistra ascrivibile principalmente al contributo delle Sardine. In assenza di dati empirici approfonditi sul punto specifico, possiamo affermare che – vista la geografia del voto -, il peso di Bologna sia stato cruciale, ma che senza una leadership coerente la ri-mobilitazione di un elettorato già identificato e politicizzato non avrebbe generato surplus. Credo che in entrambi in casi si sottovaluti lo scollamento sociale, valoriale, culturale, e dunque elettorale tra le proposte del centro-sinistra e la società emiliano-romagnola. Il tempo e le energie per riflettere e porre rimedio esistono, viceversa, la débâcle è solo rimandata, e non ci saranno uomini o “pesci” a scongiurarla. Bologna non è l’Emilia-Romagna, certo. Ma l’Emilia-Romagna pesa su Bologna. E il comportamento degli aspiranti sindaco del PD a Bologna non lascia intravedere nulla di buono, se non fosse che il centrodestra è in eterno ritardo e perciò non competitivo, per ora. Lo schema è il solito: il PD lancerà i suoi peana prima del voto per fermare il “nemico”, ma all’uopo scatterebbero le prefiche. In assenza di riflessione, di studio, di introspezione sulle ragioni delle vittorie, il centro-sinistra si affida al caso, che è poi anagramma di caos. Per il proprio bene in futuro il PD dovrebbe augurarsi una sonora sconfitta ovvero una vittoria ragionata. Sarebbe salutare.

La Destra in Italia. Tra Salò, Pontida e Washington.

editoriale per Il Riformista

C’è un grande assente nella storia sociale e politica dell’Italia: la borghesia. La classe che altrove ha guidato le innovazioni (tecnologie, ma soprattutto sociali e culturali) e che ha promosso le grandi trasformazioni degli ultimi tre secoli, in Italia è rimasta a traino. Ha preferito accomodarsi, accucciata vicino al tepore del camino di casa dello Stato/Governo che elargiva prebende, tanto materiali quanto simboliche-identitarie.

Anziché essere classe dirigente la borghesia italiana ha fatto da stampella al potere, un po’ meretrice, un po’ ruffiana e giullare di corte. Con le dovute eccezioni di rito, appunto. La conseguenza sistemica di questo miscuglio di funzioni e ruoli, ha sostanzialmente rallentato, e forse impedito, che maturassero due poli, uno conservatore ed uno socialdemocratico. Azzoppati certo nel loro sviluppo dal contesto internazionale, dalla “cortina di ferro”, dal primato culturale del Partito comunista rispetto al fratello/cugino/avversario socialista, fino, formalmente, al 1989-1991 e ai travagli identitari e poco intellettuali dei post comunisti che ancora cercano una (terza) via. Sull’altro versante, il predominio, tramutatosi in rendita di posizione, della Democrazia cristiana ha mutilato le spinte riformiste in nome troppo spesso della ragion di Stato (o talora del “segreto” di Stato), fino a farne un alibi rispetto al pericolo “sovietico” anche quando palesemente fuori tempo. La DC, la balena bianca, era però anche un “grande mitile” in grado di filtrare i residui e le incrostazioni del revanchismo fascista, di contenere le invasioni di campo di una componente della Chiesa cattolica, di prendere le distanze dai movimenti eversivi. Marco Follini ha spesso ben richiamato la complessità di quel partito, articolato, fatto non solo di faccendieri, di personaggi legati alla mafia, o mafiosi essi stessi, ma in grado di fare dell’Italia uno dei più grandi paesi industrializzati. Nel bene e nel male. Di mantenere la barra dritta in una navigazione perigliosa per Roma segnata da molti lutti e lati oscuri. La temperie sociale-politica degli anni ’90 non ha consentito una maturazione del campo catto-conservatore in un moderno partito di destra, ma è stato travolto dalle promesse salvifiche del tycoon Silvio Berlusconi che ha ri-proposto la dicotomia anti-comunista (in un Paese quasi senza più comunisti) premiando perciò le rispettive ali “estreme” e consegnando alla Sinistra l’alibi perfetto per non maturare e riformarsi. Forza Italia non ha avuto la penetrazione sociale e la capacità di leggere gli interessi come faceva invece la DC, ma ha affidato tutto il destino del Paese a quello di un solo uomo. Ossia una mentalità mai accettata nel partito dello scudo crociato. Berlusconi ha però modernizzato il polo conservatore, nei modi, nei toni, e anche rispetto ad alcuni temi “di costume” sui quali – bon gré mal gré – ha segnato una rottura, non fosse altro quale “parte in causa”. Dal punto di vista politico però l’azione del Cavaliere ha prodotto due rotture cruciali per l’intero sistema politico e partitico: 1) l’ingresso a Palazzo Chigi della Lega Nord; 2) lo sdoganamento del Movimento sociale italiano. Da un lato, queste due forze sono state indotte a “modernizzarsi” al fine di essere presentabili per entrare nella società dei salotti istituzionali, ma dall’altro la presenza di Berlusconi le ha garantite quanto a iniezione costante di risorse per la coalizione nonché di sostegno politico, e perciò inibendone l’assimilazione, ma anzi enfatizzando il carattere identitario. Al fine di distinguersi, per evitare di estinguersi, Msi/Alleanza nazionale e Lega Nord hanno rimarcato le loro posizioni classiche, di nazione da un alto e di anti-nazione dall’altro. Un ossimoro tenuto insieme dal collante berlusconiano, quello di un capo carismatico, affabulatore, e grande cerimoniere nel tessere le trame per una coalizione di centro-destra variamente denominata. Sul piano culturale l’alleanza trainava e rappresentava quella parte di società che si rispecchiava nel forza/leghismo, scettico verso lo Stato e ultraliberista. Viceversa, gli eredi del Partito nazionale fascista, esclusi dal Governo secondo la celebre conventio ad excludendum (Il polo escluso, P. Ignazi, Il Mulino) insieme al PCI che però aveva lottato per la Liberazione, elaborato e votato la Costituzione, si ritrovano a mutare costretti dagli eventi. Il Movimento sociale italiano compie un passaggio di trasformazione organizzativa, simbolica, ideologica prodromo di successivi aggiustamenti. È il primo passo per l’abbandono del fascismo come ideologia di riferimento, al netto delle intemperanze di alcuni e inevitabili andamenti oscillatori nella definizione della nuova identità politica-partitica.

Il progetto promosso e incarnato da Gianfranco Fini era solido, aveva una prospettiva e puntava a entrare a pieno titolo nel gruppo dei conservatori europei. L’obiettivo, non dichiarato perché tabù, era l’egemonia nel campo del centro-destra, dominato e in realtà posseduto manu militari (e finanziaria) da Berlusconi che perciò non ammise nessuna sfida diretta alla sua leadership. Il progetto aveva una visione ed era frutto di lavoro cui contribuirono intellettuali di rilievo, tra tutti Domenico Fisichella, ed articolazioni come la fondazione Farefuturo che promosse un dibattito coi principali leader del mondo conservatore europeo, da J.M. Aznar a Nicolas Sarkozy, del cui libro nel 2007 Fini non a caso scrisse la prefazione. Insomma, c’era un fermento che si interruppe bruscamente con la marginalizzazione di Fini che osò sfidare apertamente il padrone di Forza Italia, mutata da una battuta in piazza in Popolo della Libertà. L’impossibilità di avere due leader in un solo partito fece il resto. E congelò il processo riformatore interno ad Alleanza nazionale posto che molti realisti rimasero come cortigiani di Berlusconi e la fuoriuscita di Fini si rivelò fallimentare nelle urne. Fratelli d’Italia nasce dunque come contro-risposta identitaria, ritorno alle “origini” dopo la presunta onta del partitone berlusconiano che assimilava tutto e tutti. Giorgia Meloni è stata abile a riprendere le fila di militanti orfani di una identità e a rinsaldare i temi cari al duo Msi/An. Unitamente a un piglio casareccio con toni popolari, a tratti popolani e perciò elettoralmente salubri, e una indubbia tenacia, Meloni ha intercettato l’umore di una parte importante del Paese distante dalle boutades di Salvini e disorientate dopo la fine, de facto, della spinta propulsiva di Forza Italia.

La marcia trionfante di Meloni è però strettamente intrecciata con i destini del fratello/nemico Matteo Salvini. È lì il cuore della questione, del futuro della Destra italiana, contesa tra ambizioni individuali, scontri di potere, oscillazioni elettorali e riposizionamenti sullo scacchiere internazionale.

Fino a pochi mesi fa la tenzone era prevalentemente basata sul duopolio “immigrazione-nazione”, laddove il primo lemma è nettamente appannaggio di Salvini e la nazione invece è meglio maneggiata da Meloni. Dopo le politiche del 2018 Meloni era ancillare rispetto a Salvini, sia sul piano elettorale, ma anche dal punto di vista mediatico. Il leader era indubbiamente il capo della Lega Nord, mentre Meloni provava a ritagliarsi uno spazio residuale. La sciagurata gestione del proprio ruolo all’interno del Governo Conte I ha reso la Lega Nord oramai un orpello, un ostacolo per la modernizzazione del polo conservatore. L’idea di aderire al gruppo del partito popolare europeo è del tutto estemporanea, una … emerita sciocchezza che denota l’approssimazione, l’improvvisazione del partito in una dinamica di scontro tra bande interno all’organizzazione di cui Salvini ormai sta perdendo il controllo.

Che questa prospettiva sia un azzardo e una trovata mediatica autunnale, solo come risposta alla mossa azzeccata di Meloni, lo si evince studiando la storia della Lega Nord. La difficile trattativa con i popolari europei prima che complicata dalle ritrosie di forze realmente conservatrici ostili agli strali di nazionalisti di estrema destra, ha un intrinseco limite ontologico: la Lega stessa. Entrare nel Partito popolare europeo, se per assurdo avvenisse, significherebbe la fine stessa del Carroccio. Il quale dovrebbe rinunciare o comunque nascondere come un ladro le libagioni in onore della sovranità nazionale a scapito della dimensione sovra-nazionale, l’anti-europeismo, il regionalismo differenziato, ossia la “secessione 2.0”, così denominata per addolcire le residue resistenze culturali a sinistra e nel Paese. Né, tantomeno, la Lega Nord ha le tradizioni e la cultura politica di partiti nazionalisti quali lo Scottish national party o altri. Si tratterebbe di un matrimonio senza speranze che nessuno dei partner vuole davvero. I popolari europei accettarono Berlusconi solo, o principalmente, per la dote finanziaria derivante dal numero di deputati a Strasburgo, figurarsi se – almeno nella componente britannica e polacca – accetterebbero tra le proprie fila chi flitra con la Russia di Putin. La Lega è, al di là dei sondaggi, un partito allo sbando, senza identità, senza idee, senza visione. L’unica residuale inerzia è quella di un partito personale che come tale risente delle difficoltà del leader al crepuscolo. Finirà che i maggiorenti del partito liquideranno Salvini, con un pretesto, per patente incapacità di politica prospettica. Lo stesso si arroccherà su una posizione irredentista, massimalista e urlerà al tradimento. Il senatore eletto per sbaglio a Locri Epizephiri sarà costretto a tornare alle sagre di paese, alle fiaccolate, puntando alla “origini”. Con partito “suo” attorno al 3% sarà una sorta di Front national delle pre-Alpi con una piattaforma anti-sistemica e di estrema destra (come del resto già succede alla c.d. Lega di Salvini, ovvero alla mai defunta Lega Nord).

Se, dunque, il processo che ha portato Meloni alla guida del gruppo dei conservatori europei risale a un percorso di revisione interrottosi due lustri fa, ma che ha incluso vari esponenti della società e della cultura in un dibattito vero, il caso della Lega è senza speranza. Non c’è nessun confronto ideale all’interno, nessun orizzonte di scontro “congressuale” su tesi contrapposte, né si vedono personaggi del calibro di Gianfranco Miglio, ma solo funzionari. A questo si aggiunga che la strategia di Luca Zaia e Giancarlo Giorgetti mira a fagocitare la parte elettorale del partito “nazionale” e lasciare a Salvini la bad company.  I due però non sono per nulla “moderati”, categoria dello spirito che tra l’altro non esiste nella storia delle dottrine politiche: il moderatismo. Manifestano semmai “modi” un po’, ma leggermente, più urbani del duo che però nella sostanza ha sempre e comunque sostenuto gli strali di Bossi, gli “eccessi” di Salvini e le intemerate dei vari colonelli della Lega.

Meloni, pertanto, come ho già scritto altre volte, ha una occasione storica. Può dimostrare di essere all’altezza del compito. Ma per farlo deve annientare i residuati bellici del revanchismo neo-fascista, chiarire definitivamente sull’antifascismo, sui diritti civili (vedi L. 194) e sulle diversità, togliere la “fiamma” dal simbolo, rimanere nel campo europeista (non indulgendo su Orban) e infine mostrare postura istituzionale sulla magistratura (sostegno politico a Salvini, ma non in piazza contro i giudici). Dal suo punto di vista certo, ma presentando una destra conservatrice e moderna. Sarebbe un bene per l’intero sistema partitico, per il Paese e indurrebbe anche il centro-sinistra a modernizzarsi. Non sappiamo quali siano le intenzioni, ma se Meloni facesse sul serio non potrebbe che essere una buona notizia. Lo spazio lasciato da Forza Italia, dalla Lega in declino e da forze personali/stiche come Azione e Italia viva offrono praterie elettorali, ma richiedono leadership moderna e innovativa.

Oggi la Destra italiana è a un bivio. La scelta identitaria e culturale passa tra l’abbandono definitivo di Salò, lasciare Pontida alle forze anti-sistema e folkloristiche e rivolgersi, da veri conservatori maturi, a Washington dialogando con Bruxelles.

 

La Lega di Salvini perde. Ma il leghismo è vivo

La Lega governa l’intero nord, dal confine con la Francia a quello con la Slovenia, dalle Alpi sino al Po. Sono leghisti i Presidenti delle regioni più ricche, popolose e industrializzate del Paese. La Lega di Salvini è primo partito in migliaia di comuni, ha sfidato a viso aperto, e fatto tribolare, il centro-sinistra in Emilia-Romagna e in Toscana, luoghi dove l’accerchiamento è rimandato, mentre Umbria e Marche hanno ceduto al vento populista. E ha contribuito a far vincere il centro-destra a Venezia, non proprio un feudo leghista. Difficile pertanto liquidare l’affaire Salvini pensando che il referendum grillino lavi ogni difficoltà politica.

Pare complicato, arduo, immaginare che il centro-sinistra/populista continui a guidare l’Italia senza porsi una domanda cruciale circa gli strumenti (legislativi, ma soprattutto culturali e politici) per recuperare i consensi del Nord. A meno di non volerli considerare contaminati e perciò indegni.

Il voto delle elezioni regionali di domenica scorsa consegna un risultato non troppo chiaro, e perciò da ciascuno ascrivibile al proprio campo in termini di “vittoria”. Il Partito democratico ha perso una regione, le Marche, ha abbandonato il Veneto al suo destino, eppure la leadership esulta per il pericolo scampato. È primo partito di una coalizione minoritaria nel Paese, governa un terzo delle regioni ed in difficoltà a sintonizzarsi con intere fasce della popolazione. Il Movimento 5 stelle è in dissoluzione, ma cela la frantumazione ricorrendo all’esito del voto referendario e rilanciando sui temi dell’anti-democrazia rappresentativa. La Lega Nord del sen. Matteo Salvini ringrazia gli “italiani” (e le italiane) per non si sa bene quali motivi. La Lega è, infatti, in rotta almeno sul piano dei consensi e della leadership. Ha perso in tutte le regioni ove presente (la Valle d’Aosta, in cui è primo partito ma non è detto riesca a governare, è storia a sé per molte ragioni storiche-sociali). Dei due candidati alla carica di Presidente uno solo è stato ri-eletto, mentre nel resto del Paese la lista “Salvini” ha subito una grave sconfitta.

Per dare la misura della débâcle è importante considerare i voti assoluti (tabella 1), sebbene alla comparazione con le precedenti elezioni politiche ed europee sarebbe preferibile quella con il 2015 che però rappresenta un’era politica diversa.  Nel complesso delle sei regioni principali, la Lista Salvini ha perso quasi due milioni di voti (-1.948.896) voti tra il 2020 e le elezioni europee dello scorso anno, con valori negativi ovunque, anche al netto della specificità veneta. La quale, semmai, segnala non un problema per il leghismo quanto per la leadership, ormai presunta, del senatore milanese eletto in Calabria. Zaia appunto non è un caso a parte, ma rappresenta per Salvini l’indicatore principale che la presa sul partito è ai minimi storici. Una vicenda di questo tipo non sarebbe mai successa con il vero leader della Lega Nord, ossia Umberto Bossi. L’acrimonia tra leghisti/lombardi e leghisti/veneti ha fatto il resto. Va altresì notato che in veneto la Lega si presentava con il simbolo della “Łiga veneta” proprio a sancire l’ammainare delle velleità nazionali. In percentuale la Lega Nord di Salvini perde tra 10 punti percentuali (Toscana) e -15 punti nelle altre regioni, in media. Anche la comparazione con il 2018 segnala in realtà un falso punto di tenuta poiché ad esclusione di pochi voti in più in Puglia e Campania, la Lega Nord perde 641.000 voti, che solo in parte sono spiegabili con la differenziazione lista Zaia/lista Salvini. Questo dato indica perciò che il partito “tiene” politicamente nel complesso rispetto all’impennata 2019 (sul 2015 aumenta di circa 10 unità il gruppo dei consiglieri regionali), ma si sta ritirando e rintanando nel Nord-Est, posto che anche alle comunali di Milano sarà difficile recuperare lo smalto di un tempo.

Se, dunque, la sfida alla guida di Matteo Salvini è ormai questione di qualche mese, la persistenza della questione leghista e della questione settentrionale invita ad andare oltre i facili proclami, ambo lati.

La parabola discendente della popolarità di Salvini, e di conseguenza il calo di intenzioni di voto (che sono diversi dai voti reali) nonché la battuta di arresto in elezioni “locali”, quattro delle quali in zone storicamente ostiche per il partito, non debbono essere confuse, sovrapposte e sostitute con la tenuta sociale, politica e culturale del leghismo. Che è vivo, vegeto e ben insediato nel tessuto profondo dell’Italia. E degli italiani. Negli ultimi anni sono cresciuti i sentimenti di ostilità per i diversi (immigrati, diritti civili), la richiesta di politiche di chiusura verso l’altro da sé, l’autoritarismo, il nazionalismo, l’antisemitismo, l’intolleranza, il favore per pene “esemplari”. Temi battuti direttamente, palesemente, ovvero in forma subdola dalla Lega salviniana da almeno un lustro. Ma che covano nel Paese da molto tempo. Per cui, non importa quanto abbia vinto/perso la Lega e il suo leader pro tempore, ma è rilevante avviare un’analisi profonda sulla pervasività e invasività del leghismo. Chi volesse affrontare la Lega e sconfiggerla sul piano elettorale, prima dovrebbe agire su quello politico-culturale con una proposta radicalmente diversa, efficace, riformista, basata su politiche inclusive e progressiste, ripartendo dalla diseguaglianza. Che è diffusa in tutto il Paese e investe i precari, i disoccupati, la classe media e i lavoratori dipendenti da Nord a Sud. Molti, stolti, pensarono che la Lega fosse finita già nel 2010 allorché Bossi si scontrò coi diamanti del cerchio magico. Il voto non è che UN indicatore dei valori e della cultura politica.

Sbaglierebbe chi considerasse oggi la parentesi chiusa, il Paese è ancora lontano dagli standard di civismo scandinavo.

Tabella. 1 – L’andamento del voto alla Lega di Salvini 2018-2020 (valori assoluti e differenza punti percentuali in parentesi)

Regione 2020-2019 2020-2018
Veneto -886.778 (-33) -572.536 (-15)
Campania -286.471 (-14) 3.720 (+1)
Puglia -242.917(-16) 25.382 (+3)
Toscana -236.751(-10) -19.420 (+4)
Marche -151.623(-15) -14.304 (+5)
Liguria -144.356 (-16) -64.012 (-3)
Totale -1.948.896 -641.170

Fonte: elaborazione dell’Autore da Ministero dell’Interno.

Il Sud respinge l’opa di Salvini

Il Sud respinge l’opa di Salvini

Napoli, la prima città d’Europa a liberarsi autonomamente dal nazifascismo durante le celebri “quattro giornate”, magnificamente ricordate nel film omonimo diretto da Nanny Loy. La capitale Partenopea, ostile a ogni “invasione”, rappresenta l’ostacolo più arcigno al tentativo della Lega (Nord) di  avanzare al Sud, una mascarade guidata dal Sen. Salvini – di cui abbiamo parlato su queste colonne – e già fallita nei fatti perché mendace e infondata sul piano culturale.

Proprio al Sud la Lega rischia molto alle imminenti elezioni regionali, in un contesto complessivamente sfavorevole al Carroccio.

Sul piano internazionale l’alleanza ultra-conservatrice miete meno successi che in passato sebbene sia ancora solida nel complesso, e in molti ambiti, certamente quello economico-finanziario, continui ad essere influente o egemonica. Le singole realtà della rete del varipointo gruppo che trae ispirazione da D. Trump, J. Bolsonaro, M. Le Pen e dalla “foto” di Visegrád sono paradossalmente esposte proprio agli effetti dell’isolamento nazionalista. La torsione individualista inflitta dal Covid-19 ai sogni di geopolitica sovranisti ha mostrato l’irricevibilità teorica prima che pratica del modello che mira al ritorno di fiamma delle (piccole) patrie. Mentre la forza economica, militare, e la statura di altri leader consente pero’ di sopravvivere almeno sul piano nazionale, la Lega (Nord) paga l’irrilevanza della visione e dello spessore politico-culturale del senatore eletto nella Locride.

Stretta e ristretta dunque nella geografia dello Stivale, la Lega (Nord) punta a rimediare al crollo di consensi che la investe da un anno almeno. L’abbandono del Governo nell’estate in cui l’ex Ministro dell’Interno vestì i panni del bullo di periferia ha marcato l’inizio della fine per un progetto cui oltre alle citate idee e prospettive teoriche e culturali, manca oggi anche la copertura aerea delle risorse (latu sensu) derivanti da incarichi istituzionali. Il ricorso disinvolto ai benefici delle funzioni di Governo lascia spazio a pesanti costi organizzativi in una fase di allontamento di iscritti, simpatizzanti e donatori vari. Cui si sommano i problemi giudiziari del Sen. Salvini per la vicenda migranti nonché quelli legati alla galassia di procacciatori di affari legati al partito. Al netto del procedimento giudiziario che deve ovviamente garantire ogni cittadino, nel complesso queste condizioni “di contesto” non aiutano il Sen. Salvini né la Lega (Nord) a detrimento dell’imagine e dell’attrattività del partito.

Infine, il contesto locale, pur nelle specificita’, rimanda a un “terreno di caccia” complicato, per un leader che ha perso il momentum, e un partito scavalcato a destra da Giorgia Meloni, e con la crisi economica che ha sbiadito il tema immigrazione, palesando il balbettio leghista sulle proposte.

Da sempre Napoli ha rappresentato la gola stretta, ostico budello per il passaggio dei “barbari sognanti” verso i mari caldi e i bacini di voti di elettorali “volatili” del Sud. I segnali sociali che provengono dalla Sicilia, dalla Calabria, da Torre del Greco e da Napoli indicano che l’aria è cambiata davvero. La Lega torna al Nord.

In Campania la lista di Salvini andrà sotto al 5% scomparendo dai radar locali; in Puglia se Michele Emiliano fosse sconfitto a prevalere sarebbe il centro-destra a trazione “Alleanza nazionale”, da sempre forte in regione, e forzista, ossia la “Casa della liberta’” rivista e corretta, con la Lega a traino. La stessa dinamica si potrebbe avere nelle Marche, sebbene la portata del cambio di governo sarebbe più ampia, ma avrebbe comunque la Lega (Nord) in posizione ancillare. L’unica vittoria quasi certa, anche per abbandono dell’avversario, è il caso Veneto, in cui il centro-sinistra ha rinunciato troppo presto, assecondando l’adagio non verificato del “buon governo” di Luca Zaia. Uomo politico della Lega (Nord), o meglio della Łiga Veneta, militante da sempre, ma competitore diretto del segretario nazionale e percio’ non ascrivibile alle vittorie di Salvini. La Liguria delle fazioni a sinistra, delle vendette e dei ricatti, menù fisso dei progressisti, vede al vertice della Giunta un politico affine alla Lega e a Salvini che pero’ difficilmente potrebbe includere tra le vittorie stretegiche delle camicie verdi-brune.

Rimane la Toscana, diventata suo malgrado luogo di una finta sfida all’O.K. Corral, mentre in realta in un Paese “normale” si tratterebbe solo di una competizione locale. La vittoria della coalizione di centro-destra non sarebbe un attentato alla democrazia, al netto dell’insipienza delle proposte politiche della candidata alla Presidenza e degli strafalcioni sulla Storia. Si tratterebbe semmai di fisiologica, e persino auspicabile, alternanza al potere. Ma la sinistra, e Matteo Renzi, dominus della regione, ne hanno fatto un luogo e una contesa meta-simbolica in cui si gioca una partita nazionale  (come lo scorso anno in Emilia-Romagna) nella quale l’ex Presidente del Consiglio puo’ segnalare la sua rilevanza e indispensabilità. Ma in assenza di un progetto nazionale sifdante, e in difficoltà per la coabitazione con il populismo del Movimento 5 stelle, il PD inscena la consueta battaglia di civilta tra il “bene” e il “male”. Uno schema schmittiano, in atto stancamente dal 1994, che va bene a Salvini, a Renzi e al PD in cui tutti gridano alla liberazione.

Tuttavia, nella trasposizione cinematografica della Resistenza napoletana delle “quattro giornate” c’è un eccelso Gian Maria Volonté, che guida il riscatto, la dignità e il valore del Sud, e metaforicamente dell’Italia intera a pochi giorni dell’8 settembre. Fuori dai teleschermi non si intravede analogo afflato, ma solo lo scimmiottamento in chiave iper-realista. Ne riparleremo.

SALVINI ADDIO… IL COVID FA PIU’ PAURA DEGLI SBARCHI

mio editoriale per il RIFORMISTA

Per almeno un lustro, da quando il sen. Matteo Salvini è arrivato alla guida della Lega, l’Italia ha vissuto un periodo di vera e propria fascinazione popolare verso l’ex ministro dell’Interno.

Gli elementi di innovazione propugnati da Salvini per far dimenticare i disastri del “cerchio magico” bossiano, i diamanti e le lauree false in Albania, e tentare di rilanciare un partito esangue elettoralmente, sono state sostanzialmente tre.

La Lega Nazionale: Salvini ha provato a “nazionalizzare” il partito. La Lega di Salvini è riuscita a realizzare un cambiamento nella continuità. Negli anni recenti è passata da movimento federalista, autonomista e secessionista (puntava a separare anche istituzionalmente le regioni del Nord dal resto dell’Italia) a formazione che si proietta dentro il mondo e i temi della destra nazionalista: lotta alla mondializzazione, all’immigrazione, all’Europa della moneta unica e della democrazia pluralista. In passato la Lega guardava con favore all’“Europa delle regioni” come via di uscita dallo Stato nazionale. Di fronte al mancato riconoscimento della possibilità di uno stato indipendente padano, la Lega ha cominciato a opporsi all’Europa in nome di un progetto diverso. È passata dallo slogan “Prima il Nord” a quello “Prima gli italiani”. È diventato un partito nazionalista ma non pienamente nazionale, perché il Nord Italia resta il suo nucleo economico e identitario da difendere contro la concorrenza globale (mentre il resto del paese un’appendice elettorale funzionale al progetto). In questa chiave si deve leggere ad esempio la proposta di rilancio dell’“autonomia differenziata” per mantenere una quota maggiore di tassazione all’interno delle regioni e ridurre i meccanismi di riequilibrio e redistribuzione statale tra aree ricche e aree povere (in altri termini, un attacco al welfare nazionale).

Lega partito “neutrale”, terzo, super partes, a-ideologico, post-ideologico. La Lega ha rafforzato la collocazione nell’ambito delle formazioni populiste europee, diventando sempre più un partito di estrema destra. Siamo in presenza di un cambiamento di lungo periodo, che si è accentuato negli anni recenti. Si rileva dalla posizione del partito e degli elettori su alcuni temi chiave come l’immigrazione, l’euroscetticismo, il tradizionalismo etico (chiusura sui diritti delle coppie gay, ruolo della donna, ecc.). La crescita di importanza della questione immigrazione nella retorica politica leghista è forse la dimensione che più di altre aiuta a cogliere questa trasformazione. Attorno a questa issue la Lega ha costruito le sue posizioni di successo più forti, rilanciando l’immagine di una società moralmente compatta, cristiana nelle sue origini, sciovinista (welfare per gli italiani) e senza perdere consensi nonostante questa estremizzazione dei riferimenti culturali-ideologici-valoriali.

Lega partito dei derelitti, dei poveri, dei disoccupati. Per quanto riguarda la sua base sociale, l’elettorato della Lega è cambiato poco nel corso del tempo: cittadini di mezza età, relativamente sicuri del loro posto di lavori e preoccupati per la perdita del potere di acquisto del salario (o della pensione futura). La Lega resta un partito con una forte presenza di lavoratori autonomi. La quota di operai è diventata importante, ma non prevalente e insufficiente per sostenere la tesi di uno sfondamento leghista tra i ceti subalterni. Si può parlare di una formazione solo in parte interclassista per la difficoltà che mantiene a intercettare il mondo lavorativo del settore pubblico ma anche perché il partito non riesce a egemonizzare le aree del non lavoro e del precariato e neppure quella dei giovani, dove a ottenere più successi è il M5s. L’aspirazione di Salvini è rappresentare assieme la borghesia produttiva (del Nord) e i ceti popolari. Avere un blocco di consensi trasversale è un punto di forza, ma rende più difficile conciliare politiche e interessi diversi senza creare confusione tra l’elettorato.

In tempi normali, o meglio ordinari, la vocazione populista e anti-sistema ha rappresentato una rendita di posizione redditizia. Viceversa, la proposta politica della Lega di Salvini risulta evanescente alla luce dell’emergenza generata dal COVID-19. In passato, le contraddizioni erano state variamente disvelate e l’inadeguatezza messa in evidenza, anche con dati empirici, ma nello zeitgeist populista e qualunquista, erano state comunque accettate e sostenute da messi di elettori. Soprattutto sono state avallate, sostenute e condivise da ampie fette della borghesia italiana, spesso avvezza a chinar la testa al potente di turno, senza entrare nel merito delle questioni, in un rapporto malato con il potere, votato alla subordinazione e non, invece, al confronto dialettico, come avvien nelle moderne democrazie liberali. Le drammatiche vicende della pandemia mettono in risalto molte zone grigie sul presunto modello di buon governo della Lombardia a traino leghista, sulla sanità privatizzata e lottizzata, e rendono fatui gli strali sul “prima gli italiani”. Infine, ri-emerge chiaramente la divisione storica tra leghisti veneti e leghisti lombardi, nel quado di una classe dirigente leghista che mai ha realmente condiviso la scelta di Salvini, per quanto tattica fosse, di presentarsi come un leader di partito nazionale. Le indubbie abilità politiche di Salvini si scontrano con la fase “emergenziale” e, come emerso dalla recente ottima intervista raccolta da M. Cremonesi sul Corriere, pongono in evidenza molte difficoltà del Capitano. L’assenza del tema Immigrazione toglie acqua e ossigeno alla propaganda di Salvini, colpevole di aver reso la Lega un partito monotematico (one issue party): senza quel tema Salvini ha le polveri bagnate. Inoltre, Salvini è ritenuto colpevole da un’ampia fetta di partito di aver abbandonato i temi cari alla Lega. Dal federalismo al governo locale. Negli anni Ottanta e Novanta, pur tra molte contraddizioni, la Lega bossiana contribuì a disvelare malcostume e malgoverno, la necessità di liberalizzare l’economia e il Paese, e a porre la “questione del Nord”, oramai senza più interlocutori dopo la caduta della DC. In questa fase, invece, sembra che Salvini abbia perso il touch, l’empatia con il popolo italiano e quello del Nord in particolare. Inoltre, la divisione con Zaia è sempre più evidente, a conferma dell’antico rapporto di “odio-amore” tra leghisti veneti e lombardi. Il silenzio di Maroni e le forti perplessità di Giorgetti, specialmente sull’Europa, sono eloquenti assai.

Il COVID porta via dunque molte false certezze sulla Lega Nord e anche la guida tetragona di Salvini, sempre più discussa e contendibile.