Editoriale per IL RIFORMISTA
Le ribalderie sono archiviate. Anche questa volta il sistema politico e istituzionale dell’Italia repubblicana ha trovato nel Capo dello Stato Sergio Mattarella la saggia gestione di una crisi palese di “uomini e mezzi”. Al di là delle ricostruzioni che ciascuna parte riporta e gelosamente custodisce negli anfratti della memoria per autoconvincersi di essere stata dalla parte “giusta”, è emersa la patente modestia di una classe dirigente politica ed economica incapace di governare. Le cause profonde e lontane rimandano alla dismissione dei partiti politici, della cultura, del civismo, del merito, dei valori repubblicani. Un Paese senza leadership, senza nocchiero, senza ambizione, visione. Preda di egoismi ed egocentrismi laceranti, di visioni limitate, di ridotte di partitini personal-clanici. Di fronte alla tragedia pandemica, al netto di volontarismo e ovvie qualità di individualità, la classe politica non è stata in grado di affrontare adeguatamente la crisi economica, sociale, culturale.
La lezione da trarre è definitiva. Con vari gradienti di responsabilità i partiti politici hanno abdicato – volenti o nolenti – alla funzione di governo, di guida, di gestione della res publica. Il Presidente della Repubblica, ricorrendo alle prerogative costituzionali, e alla sua capacità di persuasione e carisma, ha indicato la strada per un esecutivo che intervenga ad horas, ma al contempo con capacità prospettica, nella piaga delle molte crisi italiane che sovrapponendosi rendono umbratile il futuro.
Il Presidente del Consiglio dei Ministri uscente, pur godendo di elevata popolarità, non ha manifestato altrettanta abilità/capacità nel governo delle politiche pubbliche, almeno in termini ambiziosi tali da essere in linea con la sfida epocale che il Paese ha di fronte. La debolezza, la pochezza di vari esponenti del gruppo di cui era circondato hanno gettato imbarazzo nell’ambiente diplomatico, tra le fila dei servizi segreti, nella classe dirigente italiana impegnata a tener alto “l’onore” della Bandiera. Quotidianamente. I partiti della coalizione (nessuno escluso) sono apparsi troppo esitanti, incerti, poco ambiziosi nel disegno di riforma e di rilancio italiano, con e persino al di là del Recovery Fund.
Pertanto, quando il Parlamento non governa entra in campo il “secondo motore” della Costituzione, ossia il Quirinale, i cui poteri si “allargano e si restringono” come una fisarmonica (Giuliano Amato dixit). Che in questa legislatura ha sopperito in diverse occasioni, in quantità e in qualità alle manchevolezze parlamentari, sin dal 2018. Prima gestendo con olimpica calma le negoziazioni che condussero alla formazione del Governo Conte I, che fu coerentemente disastroso sul piano interno e su quello internazionale, per riconosciuta impalpabilità dei due vicepresidenti. L’inciampo rocambolesco dell’aspirante capo popolo milanese indusse a miti consigli anche i guasconi e i ruffiani cortigiani sostenitori di ogni governo purchessia.
Il nome di Mario Draghi aleggia dunque sull’intera legislatura, dall’inizio. Usato, blandito, brandito, osato, usato, osannato, evocato ed invocato, minacciato a seconda del contesto e dell’interlocutore. È infine arrivato. E non sarà un governo “tecnico” (espressione che peraltro il Presidente Mattarella, ovviamente non ha mai utilizzato). I Governi “tecnici” in senso puro sono estremamente rari in natura, ma certamente in base all’estrazione politica possiamo indicare il nascente esecutivo Draghi quale esempio di un governo guidato da un non esponente partitico. Le proposte legislative – che in maggioranza sono sempre di origine governativa – devono poi essere tradotte in sostegno parlamentare e, dunque, in voto da parte dei gruppi politici. Che al netto di momenti solenni, di voti “unanimi” e nazionali su questioni dirimenti e simboliche, avanzeranno richieste, indicazioni di modifiche, strategie alternative, ossia giocheranno lo schema della politica. Che però in questa congiuntura è in forte ritirata. La prova è stata fallimentare, e l’arbitro è entrato in campo, con eleganza, sobria fermezza, ma ha indicato senza esitazione un nuovo schema. Il celebrato inno all’incompetenza come gemma da includere in curricula vacui e fatui, nella tracotanza inconscia e violenta del populismo qualunquista verrà messa non a tacere immediatamente tanto è insediato nelle menti, ma sarà ampiamente fuori dalle stanze del governo. L’incarico a Mario Draghi ha del resto inflitto un grave colpo proprio ai cantori della uguaglianza delle incompetenze, e già si acquartierano i peana della centralità del Parlamento, le prefiche per la democrazia perduta, gli attacchi al decisionismo tecnocratico. Da pater familias istituzionale e costituzionale il Presidente Mattarella investe su uno dei figli più celebrati e prestigiosi della patria, rimette al centro le competenze, il percorso di vita e professionale, la reputazione. E chiede ai partiti, li ammonisce, di agire di conseguenza. Senza nessuna esautorazione, ma anzi fornendo una inattesa, e in magna pars immeritata opportunità di redenzione.
Il Partito democratico, sempre generoso nei momenti critici per il Paese, ma forse a tratti poco incisivo, dovrà lanciare il cuore oltre l’ostacolo e dare finalmente fiato, vigore e tenore alle voci sommesse, talvolta sottomesse, che esistono ancora in quel variegato insieme, unico ancora degno di essere chiamato partito. Ma senza rinunciare ai valori, senza condividere acriticamente il Draghi pensiero. Anche le residue forze di “sinistra” non possono che rimanere nel “sistema” per provare a condizionarlo evitando di ritirarsi su un Aventino che avrebbe sembianze di una oasi sahariana, senza capacità di essere auditi. Dalla rinuncia alla lotta dentro al sistema la Sinistra ha solo tratto macerie.
Le incertezze di posizionamento del Movimento 5 stelle, frutto inevitabile di assenza di elaborazione teorica sui rudimenta dell’identificazione politica dopo lustri di antipartitismo e vaghezza ideologica, saranno presto ricomposte agilmente una volta soddisfatti gli appetiti di funzionarietti e caporali di giornata inorriditi alla prospettiva del ritorno fuori dal vituperato Palazzo che non hanno né abbattuto, né governato, ma ammaliato e subito. Tipico dei ferventi atei convertiti dai gesuiti. Le grane, grame, sorgeranno fuori dai banchi parlamentari nel “popolo” grillino, senza riferimenti, senza leader, senza urlatori. Quella protesta, per ora veicolata entro canali istituzionali potrebbero s/cadere nelle grinfie grifagne del leghismo e del neonazionalismo dell’estrema destra. La Lega Nord, ormai priva di leadership, sfidata all’interno e in cerca di identità all’esterno, è costretta, obbligata a sostenere il nascente Governo Draghi, almeno all’inizio. Il Sen. Matteo Salvini ormai in fase crepuscolare nonostante gli strali è sfidato dai colonnelli scalpitanti, dalla bramosia della imprenditoria lombardo-veneta sempre a caccia invereconda di benefit. Sarà una sfida esiziale con l’ala meno estremista (basta poco) e con Fratelli d’Italia. La cui unica posizione genuinamente coerente e redditizia sarebbe l’opposizione per fagocitare l’ormai morente astro leghista. Mentre Forza Italia puo’ finalmente mostrare di essersi affrancata dal fattore B. e promuovere una nuova avanguardia guidata da Mara Carfagna.
Per uscire dalla morta gora i partiti, con le proprie sensibilità, procedano a sostenere il governo Draghi non perché frutto di decisioni assunte in segrete stanze massoniche-finanziarie, ma perché in grado di risollevare le sorti del Paese. A patto che non lo si consideri un nuovo Salvator Mundi. Sarebbe dannoso per i partiti, per il nuovo Presidente del Consiglio e per il Paese. La responsabilità, la collaborazione e la correità sono nazionali.

I governi di minoranza sono comunemente, ed erroneamente, considerati un ossimoro, una bestemmia per la sacralità rituale del principio maggioritario, un’eccezione, necessità temporale. In Europa dal dopoguerra i governi rimasti in carica grazie al sostegno di una minoranza di parlamentari sono all’incirca un terzo del totale, con una dinamica analoga anche nella zona orientale post 1989. Tali esecutivi riescono non solo a durare, ma anche a produrre politiche pubbliche. Quanto i governi “maggioritari”.
I principii, le regole – quelle scritte e le prassi -, i rapporti di forza, gli interessi nazionali, i patti siglati e quelli da concludere, i negoziati e le trattative. Un insieme, una fitta rete di relazioni che pongono l’Italia in un contesto ben più ampio di una conferenza stampa o di una passeggiata a favore di telecamera.
Il risultato che indica Bologna in testa quanto a condizioni socio-economiche è la (ennesima) certificazione di quanto cittadini e ospiti (e persino turisti) possono immediatamente percepire visitandola, seppure per poche giornate o addirittura ore. Si tratta del compimento di un processo iniziato settant’anni fa, nei mesi della Resistenza che diede slancio alla passione civica, alla voglia di riscatto, di solidarietà, pace e progresso. Il disegno riformatore fu costruito dalle forze politiche progressiste e di sinistra, dal Partito comunista che fu intelligente a coinvolgere nel patto sociale tutte le forze vive della città, o meglio della regione. Non è un dono caduto dalla stratosfera, ma “frutto del lavoro” del popolo di Bologna, che con fatica ha compiuto un quasi miracolo portando la città da un cumulo di miseria ai fasti uguagliando le socialdemocrazie scandinave. Si tratta della lungimiranza di amministratori e politici (!), della capacità di elaborazione del Partito, della intelligente collaborazione con professionisti e intellettuali (si pensi a P. Cervellati su tutti). L’abilità nel fare sistema, coinvolgere gli interessi economici, sociali, cooperativi, sindacali e religiosi, con un approccio complessivamente pragmatico. Che del resto erano l’insegnamento e la linea dettate da Palmiro Togliatti nel suo “ceto medio e Emilia rossa”. Il tutto senza smarrire gli ideali di avanzamento sociale e civile, sebbene qualche scivolone ci sia stato come quando il Partito e l’Amministrazione risposero chiudendosi in modalità “burocrate automatico” nei confronti del Movimento nel 1977.
Al carattere nazionale della consultazione per il governo di Palazzo d’Accursio si somma inevitabilmente la congiuntura, la pandemia, e questa combinazione rende necessarie scelte politiche coraggiose e innovative. Il PD sta provando a delineare un percorso e talvolta le critiche sembrano un po’ ingenerose rispetto a una delle poche forze politiche organizzate in cui (si potrebbe fare di più e meglio!) ci sono un dibattito, un confronto e una partecipazione politica degne di nota. Le recenti consultazioni condotte tra i “dirigenti” di medio livello del partito sono certamente un passo nella giusta direzione, ma non possono per nulla essere esaustive per delineare il quadro nella definizione del candidato sindaco. Gli iscritti al PD, gli elettori democratici e del centro-sinistra e persino i cittadini “interessati” andrebbero coinvolti, in una logica “estroversa” del PD, evitando una dinamica “introversa” e di chiusura che tanti danni ha generato nella società. Bologna serba risorse ampie e dense di partecipazione, espressa e potenziale, dai comitati, alle associazioni, ai sindacati, ai gruppi, ai movimenti, che apparirebbe davvero strano se il candidato a sindaco fosse selezionato da pochi intimi. I partiti, come dicevamo alcune settimane orsono su queste pagine, hanno il diritto di esercitare il ruolo di proponenti per evitare le derive populiste, ma al contempo devono leggere il contesto storico e sociale mutato. Un nome altro rispetto a quelli in circolazione, sebbene sempre possibile, appare difficile da far accettare al partito che con fatica rimane compatto, almeno formalmente. Né la strada del c.d. papa straniero – o briscolone che dir si voglia – sembra percorribile. Il “modello Cofferati” venne imposto da Roma, da Massimo D’Alema che voleva liquidare un personaggio scomodo per sé e per il partito e accettato per lavare l’onta del 1999; ma “non sono più qui tempi là” ché non c’è il Partitone e difficilmente l’intendenza seguirebbe. Ergo, saggezza suggerisce di coinvolgere the people. Gli elettori del PD e del centro-sinistra. La ritrovata “normalità”, principale lascito del decennio a guida Merola, come ha ricordato Olivio Romanini su queste colonne, dovrà essere affrontata con continuità, ma anche innescando rottura e innovazione per guardare alla città del 2050. Scelte eccezionali, coraggio, idee e proposte che andranno discusse con i cittadini e i corpi intermedi.