Governo del Presidente.

Editoriale per IL RIFORMISTA

Le ribalderie sono archiviate. Anche questa volta il sistema politico e istituzionale dell’Italia repubblicana ha trovato nel Capo dello Stato Sergio Mattarella la saggia gestione di una crisi palese di “uomini e mezzi”. Al di là delle ricostruzioni che ciascuna parte riporta e gelosamente custodisce negli anfratti della memoria per autoconvincersi di essere stata dalla parte “giusta”, è emersa la patente modestia di una classe dirigente politica ed economica incapace di governare. Le cause profonde e lontane rimandano alla dismissione dei partiti politici, della cultura, del civismo, del merito, dei valori repubblicani. Un Paese senza leadership, senza nocchiero, senza ambizione, visione. Preda di egoismi ed egocentrismi laceranti, di visioni limitate, di ridotte di partitini personal-clanici. Di fronte alla tragedia pandemica, al netto di volontarismo e ovvie qualità di individualità, la classe politica non è stata in grado di affrontare adeguatamente la crisi economica, sociale, culturale.

La lezione da trarre è definitiva. Con vari gradienti di responsabilità i partiti politici hanno abdicato – volenti o nolenti – alla funzione di governo, di guida, di gestione della res publica. Il Presidente della Repubblica, ricorrendo alle prerogative costituzionali, e alla sua capacità di persuasione e carisma, ha indicato la strada per un esecutivo che intervenga ad horas, ma al contempo con capacità prospettica, nella piaga delle molte crisi italiane che sovrapponendosi rendono umbratile il futuro.

Il Presidente del Consiglio dei Ministri uscente, pur godendo di elevata popolarità, non ha manifestato altrettanta abilità/capacità nel governo delle politiche pubbliche, almeno in termini ambiziosi tali da essere in linea con la sfida epocale che il Paese ha di fronte. La debolezza, la pochezza di vari esponenti del gruppo di cui era circondato hanno gettato imbarazzo nell’ambiente diplomatico, tra le fila dei servizi segreti, nella classe dirigente italiana impegnata a tener alto “l’onore” della Bandiera. Quotidianamente. I partiti della coalizione (nessuno escluso) sono apparsi troppo esitanti, incerti, poco ambiziosi nel disegno di riforma e di rilancio italiano, con e persino al di là del Recovery Fund.

Pertanto, quando il Parlamento non governa entra in campo il “secondo motore” della Costituzione, ossia il Quirinale, i cui poteri si “allargano e si restringono” come una fisarmonica (Giuliano Amato dixit). Che in questa legislatura ha sopperito in diverse occasioni, in quantità e in qualità alle manchevolezze parlamentari, sin dal 2018. Prima gestendo con olimpica calma le negoziazioni che condussero alla formazione del Governo Conte I, che fu coerentemente disastroso sul piano interno e su quello internazionale, per riconosciuta impalpabilità dei due vicepresidenti. L’inciampo rocambolesco dell’aspirante capo popolo milanese indusse a miti consigli anche i guasconi e i ruffiani cortigiani sostenitori di ogni governo purchessia.

Il nome di Mario Draghi aleggia dunque sull’intera legislatura, dall’inizio. Usato, blandito, brandito, osato, usato, osannato, evocato ed invocato, minacciato a seconda del contesto e dell’interlocutore. È infine arrivato. E non sarà un governo “tecnico” (espressione che peraltro il Presidente Mattarella, ovviamente non ha mai utilizzato). I Governi “tecnici” in senso puro sono estremamente rari in natura, ma certamente in base all’estrazione politica possiamo indicare il nascente esecutivo Draghi quale esempio di un governo guidato da un non esponente partitico. Le proposte legislative – che in maggioranza sono sempre di origine governativa – devono poi essere tradotte in sostegno parlamentare e, dunque, in voto da parte dei gruppi politici. Che al netto di momenti solenni, di voti “unanimi” e nazionali su questioni dirimenti e simboliche, avanzeranno richieste, indicazioni di modifiche, strategie alternative, ossia giocheranno lo schema della politica. Che però in questa congiuntura è in forte ritirata. La prova è stata fallimentare, e l’arbitro è entrato in campo, con eleganza, sobria fermezza, ma ha indicato senza esitazione un nuovo schema. Il celebrato inno all’incompetenza come gemma da includere in curricula vacui e fatui, nella tracotanza inconscia e violenta del populismo qualunquista verrà messa non a tacere immediatamente tanto è insediato nelle menti, ma sarà ampiamente fuori dalle stanze del governo. L’incarico a Mario Draghi ha del resto inflitto un grave colpo proprio ai cantori della uguaglianza delle incompetenze, e già si acquartierano i peana della centralità del Parlamento, le prefiche per la democrazia perduta, gli attacchi al decisionismo tecnocratico. Da pater familias istituzionale e costituzionale il Presidente Mattarella investe su uno dei figli più celebrati e prestigiosi della patria, rimette al centro le competenze, il percorso di vita e professionale, la reputazione. E chiede ai partiti, li ammonisce, di agire di conseguenza. Senza nessuna esautorazione, ma anzi fornendo una inattesa, e in magna pars immeritata opportunità di redenzione.

Il Partito democratico, sempre generoso nei momenti critici per il Paese, ma forse a tratti poco incisivo, dovrà lanciare il cuore oltre l’ostacolo e dare finalmente fiato, vigore e tenore alle voci sommesse, talvolta sottomesse, che esistono ancora in quel variegato insieme, unico ancora degno di essere chiamato partito. Ma senza rinunciare ai valori, senza condividere acriticamente il Draghi pensiero. Anche le residue forze di “sinistra” non possono che rimanere nel “sistema” per provare a condizionarlo evitando di ritirarsi su un Aventino che avrebbe sembianze di una oasi sahariana, senza capacità di essere auditi. Dalla rinuncia alla lotta dentro al sistema la Sinistra ha solo tratto macerie.

Le incertezze di posizionamento del Movimento 5 stelle, frutto inevitabile di assenza di elaborazione teorica sui rudimenta dell’identificazione politica dopo lustri di antipartitismo e vaghezza ideologica, saranno presto ricomposte agilmente una volta soddisfatti gli appetiti di funzionarietti e caporali di giornata inorriditi alla prospettiva del ritorno fuori dal vituperato Palazzo che non hanno né abbattuto, né governato, ma ammaliato e subito. Tipico dei ferventi atei convertiti dai gesuiti. Le grane, grame, sorgeranno fuori dai banchi parlamentari nel “popolo” grillino, senza riferimenti, senza leader, senza urlatori. Quella protesta, per ora veicolata entro canali istituzionali potrebbero s/cadere nelle grinfie grifagne del leghismo e del neonazionalismo dell’estrema destra. La Lega Nord, ormai priva di leadership, sfidata all’interno e in cerca di identità all’esterno, è costretta, obbligata a sostenere il nascente Governo Draghi, almeno all’inizio. Il Sen. Matteo Salvini ormai in fase crepuscolare nonostante gli strali è sfidato dai colonnelli scalpitanti, dalla bramosia della imprenditoria lombardo-veneta sempre a caccia invereconda di benefit. Sarà una sfida esiziale con l’ala meno estremista (basta poco) e con Fratelli d’Italia. La cui unica posizione genuinamente coerente e redditizia sarebbe l’opposizione per fagocitare l’ormai morente astro leghista. Mentre Forza Italia puo’ finalmente mostrare di essersi affrancata dal fattore B. e promuovere una nuova avanguardia guidata da Mara Carfagna.

Per uscire dalla morta gora i partiti, con le proprie sensibilità, procedano a sostenere il governo Draghi non perché frutto di decisioni assunte in segrete stanze massoniche-finanziarie, ma perché in grado di risollevare le sorti del Paese. A patto che non lo si consideri un nuovo Salvator Mundi. Sarebbe dannoso per i partiti, per il nuovo Presidente del Consiglio e per il Paese. La responsabilità, la collaborazione e la correità sono nazionali.

Governi di minoranza

Editoriale per DOMANI

Una possibile soluzione alla crisi di Governo potrebbe essere meno complicata di quanto sembri. È sotto gli occhi, in bell’evidenza, come in un racconto di Edgar Allan Poe, per nulla celata, anzi. Minority Government and Majority Rule è il titolo di un celebre volume di Kare Strøm che analizza i cosiddetti governi di minoranza, i quali pur non beneficiando della maggioranza assoluta di seggi in Parlamento conseguono la governabilità e la stabilità. I fattori che hanno reso tali risultati possibili derivano sia da elementi contestuali che strutturali. I “governi di minoranza” e la “regola maggioritaria” esistono grazie a partiti solidi, disciplinati, coesi. Con una forza parlamentare di almeno un terzo e con l’opposizione divisa, comunque non in grado di coalizzare il resto della maggioranza parlamentare, e la benevolenza di partiti ideologicamente prossimi. L’aspetto ideologico è determinante poiché partiti pure in grado teoricamente di far bocciare l’esecutivo in carica, preferiscono tatticamente e strategicamente tenerlo in sella al fine di negoziare politiche, in taluni casi posti, e anche di trarne benefici elettorali. Storicamente è quanto avvenuto nei paesi scandinavi, in particolare in Svezia laddove il partito comunista non sosteneva, ma non osteggiava i socialdemocratici, coi quali in qualche misura dialogava e negoziava. Un po’, mutatis mutandis, quanto succede dal 2019 in Portogallo con il PS e la sinistra “estrema”.

I governi di minoranza sono comunemente, ed erroneamente, considerati un ossimoro, una bestemmia per la sacralità rituale del principio maggioritario, un’eccezione, necessità temporale. In Europa dal dopoguerra i governi rimasti in carica grazie al sostegno di una minoranza di parlamentari sono all’incirca un terzo del totale, con una dinamica analoga anche nella zona orientale post 1989. Tali esecutivi riescono non solo a durare, ma anche a produrre politiche pubbliche. Quanto i governi “maggioritari”.

Esecutivi di “minoranza” in Italia si sono avuti tra gli anni Sessanta e Ottanta, allorché la Democrazia cristiana procedeva a governi “monocolore” per stemperare tensioni interne alle fazioni, negoziare con gli alleati futuri, rimodulare gli assetti ministeriali, ma anche dopo il 1992 con assenza di maggioranza al Senato per Silvio Berlusconi nel 1994 e per Massimo D’Alema alla Camera nel 1999.

Tra il 1948 e il 2020 in Italia si sono succeduti 63 governi la cui durata media è stata di circa un anno. I Presidenti del Consiglio dei Ministri che li hanno guidati sono stati 29. A fronte di una durata media di 2.6 anni in Spagna con sette capi di governo, 3 anni in Germania con 8 cancellieri, 2.7 anni nel Regno Unito con 15 primi ministri.

Quindi il problema non è (solo) l’ampiezza della maggioranza, ma la sua natura. Le coalizioni italiane erano, e sono, litigiose, conflittuali, a tratti inconcludenti, inefficaci. Le tensioni dipendono dal tipo di partito/i che sostiene il Governo e ciò ne condiziona la durata e l’operatività. La quale nel caso dei “governi di minoranza” può essere accresciuta perché sono costretti a correre e sfidare continuamente gli avversari.

In Italia non ci sono partiti di governo come quelli scandinavi… solidi, disciplinati, coesi, ideologicamente coerenti, programmatici. La disciplina di partito è derubricata a orpello folkloristico del passato, a stalinismo ritorsivo delle libertà individuali, mentre l’andamento individualista, individuale, individualizzato e la ricerca della “felicità” e della fortuna politica personali sono declamate come virtù rinascimentali di esaltazione dell’azione e della volontà razionale. Il peana ultraliberista dall’economia e finanza applicato alla democrazia parlamentare. Con un minimo di prospettiva comparata, librata nello spazio e nel tempo, si vedrebbe, ad esempio, che la coerenza dei partiti americani, tanto celebrati in questi mesi (passerà), ha accresciuto negli ultimi anni il livello di disciplina interna. Con esiti negativi sullo storico pragmatismo in termini di approvazioni di politiche pubbliche condivise, ma con effetti positivi per talune questioni quali la programmazione e attuazione di riforme.

L’esecutivo “Conte II” potrebbe avviarsi dunque ad essere un governo di “minoranza” (quantomeno al Senato) ovvero decidere di costruire una coalizione con una maggioranza ancora più disomogenea anche rispetto al recente passato. Alcuni autori, eccentrici rispetto alla letteratura, li chiamano governi di maggioranza relativa, ma la questione rimane, non nominale, ma sostanziale. Il punto è pertanto politico.

Paradossalmente, ma non troppo, l’esecutivo Conte sarebbe più solido se decidesse di centrare l’azione parlamentare e di governo soltanto sulle forze costitutive, ossia Leu, PD e M5s. Sfidando in ciascuna occasione non la sorte, ma la solerzia degli avversari. Della destra, ma anche della palude non “moderata”, semmai centrista (per carità, le definizioni!), ma opportunista e trasformista. Rispetto ai governi di minoranza “classici” siamo di fronte al problema “coalizione”, ossia a più partiti e anche piuttosto eterogenei. Soprattutto per la “non” scelta, almeno non palese, del M5s. Che pure deve decidere se entrare, e rimanere, nel campo europeista/progressista ovvero tornare tra le fauci del populismo antistituzionale.

Senza Renzi il governo potrebbe teoricamente consolidarsi e rafforzarsi, ma ovviamente dipende dagli attori e, come detto, dal profilo e dalla omogeneità/prossimità ideologica dei componenti l’alleanza. L’orizzonte “coalizione di maggioranza” oltre che legittimo è una sfida ambiziosa. Espone l’esecutivo a una permanente roulette russa, a negoziazioni che generano micro-politiche (perniciose specialmente in questa fase storica) e alimentano lo scambio clientelare.

Un governo di minoranza, con un orizzonte temporale di circa due anni, potrebbe concentrarsi su alcuni punti programmatici (istruzione, lavoro, industria, tassazione, sanità) con progetti ambiziosi, ma ben definiti e chiaramente identificabili dalla maggioranza e dai cittadini. La navigazione sarebbe perigliosa, certo, ma non più che in una coalizione nella quale la varianza interna aumenterebbe in quantità e “qualità” rispetto a quella dell’alleanza appena disfatta. La storia militare è densa di casi in cui poche e organizzate truppe hanno tenuto testa, o sconfitto, masse e avversari numerosi ma indisciplinati.

L’opzione minoritaria e la prospettiva di un’azione coerente e mirata sarebbero anche un argomento ragionevole da sottoporre al Quirinale, anche in vista del semestre bianco durante il quale le turbolenze parlamentari e lo stallo decisionale sarebbero dietro l’angolo con un Governo esposto ai venti del negoziato perenne con singoli.

Lo scenario del governo di minoranza è plausibile, possibile e politicamente ragionevole. Dipende dagli attori politici, partiti e leader, decidere se intraprenderlo, deliberatamente quale opzione di lungo periodo.

Non Conte o Renzi. Italia, chiamò.

Editoriale per IL RIFORMISTA

La leadership la fanno il testo e il contesto. I vincoli e le opportunità formali, ma anche le condizioni date, nonché, evidentemente, i caratteri individuali. Inforcare le lenti della razionalità è poco o punto utile, non aiuta a comprendere, tantomeno a spiegare la crisi politica in corso. Ciascuno tra gli attori in gioco ha un proprio set di idiosincrasie, tattiche, strategie, fisime, ambizioni, vizi e virtù. A volte compatibili, altre non riducibili a sintesi. Tentare di ricondurre ad unum la molteplicità secondo schemi “logici” non giova, e soprattutto non è possibile. I protagonisti della crisi si muovono secondo schemi dettati da agende personali e di parte, “testa e cuore”, “lacrime e sangue”, “sangue e …”. La dovizia di dettagli di cronaca fa perdere lo sguardo lungo. Per cui meglio non indugiare su singole dichiarazioni di taluno. Esistono vincoli istituzionali, nazionali e internazionali ben più ampi, stringenti e di lungo periodo. L’Italia, Paese fondatore dell’Unione europea, membro della Nato, non puo’ agire come se fosse sganciata da legami storici, culturali, economici/finanziari, militari ed istituzionali con il mondo circostante. Di cui è parte integrante e in alcuni casi anche componente essenziale, come l’Europa. La quale, in quanto organizzazione sovranazionale con sogni e aspirazioni federalisti, non puo’ permettersi che un Paese cruciale come l’Italia sia in crisi. Non, evidentemente, in termini di legittima e libera competizione tra i partiti, di equilibrio tra poteri e cambio di maggioranze, di scontro tra leader di partito, o di sovranità parlamentare. Quanto in riferimento a una crisi sistemica verso cui il Paese si sta avviando. A prescindere da chi sia alla guida nella congiuntura. L’Europa, e l’ambiente internazionale, per quanto biasimati da una mentalità politica prevalentemente provinciale e avventata, rappresentano l’àncora di salvataggio dell’Italia.

I principii, le regole – quelle scritte e le prassi -, i rapporti di forza, gli interessi nazionali, i patti siglati e quelli da concludere, i negoziati e le trattative. Un insieme, una fitta rete di relazioni che pongono l’Italia in un contesto ben più ampio di una conferenza stampa o di una passeggiata a favore di telecamera.

Lo status, il prestigio del nostro Paese sono stati faticosamente costruiti sulla reputazione, la capacità di portare a termine il compito assegnato, di rispettare le regole. E all’estero, bon gré mal gré, a torto e a ragione, in taluni ambienti l’immagine del made in Italy politico è ancora piuttosto fragile. Ricordiamo che fu solo grazie ad Azeglio Ciampi che i tedeschi accettarono di includere l’Italia nel club Euro ché mal celavano sfiducia verso il complesso del sistema Paese. I galloni si guadagnano sul campo, e non dipendono soltanto dalla presenza di ministri credibili (e qualcuno andrebbe defenestrato ad horas), ma dalla capacità di rispondere ai problemi seriamente ed efficacemente. Gli americani la chiamano delivery.

Il Presidente del Consiglio dei Ministri, in quanto tale, ha il dovere, l’onere e persino l’onore di condurre il Governo, e di “dirigerne” la politica (art. 95 della Costituzione), ma è anche dinanzi alla sfida politica di tenere insieme la coalizione. Al di là dei punti di vista individuali e di tutte le posizioni e le mutue critiche legittime, è il capo del governo a dovere tenere unita la maggioranza, con l’ausilio dei partiti e dei loro leader. Più o meno simpatici, avventati, improvvidi, lungimiranti, scontati, coraggiosi, pavidi, tattici o strateghi, ciascuno li reputi a seconda delle sintonie politiche. E procedere ad azioni congruenti. Vero che la situazione è grave, inusitata, inedita, eccezionale, ma su taluni passaggi non potrebbe tacere nemmeno il più fervido, fervente sostenitore acritico. Le scuole e le università andrebbero riaperte, con criteri e in sicurezza, al più presto. Per esempio. Senza indugi.

L’arrocco di Matteo Renzi, dopo la “mossa del cavallo”, è difficile da decifrare per quanto detto sin ora in termini di limiti di “testo e di contesto”, di umane fragilità e in-compatibilità. Nel merito il senatore Renzi ha proposto, e in parte ottenuto, modifiche ragionevoli, sensate e assai utili sulla gestione del Recovery Fund; avrebbe forse potuto entrare nell’esecutivo occupando un dicastero prestigioso e da lì fustigare. Analogamente, il Partito democratico pare avere maturato la convinzione di dover virare su un’azione maggiormente riformatrice, decisiva, visibile, concreta, votata all’uguaglianza, agli investimenti e meno alla distribuzione, alla prospettiva di lungo periodo. Tutte azioni nelle corde, nelle idee e nella storia del PD che quindi ha il dovere di metterle in pratica. Senza tergiversare oltre ovvero dire che tutto sommato molto è stato fatto. Il Paese aspetta e merita di più. E in questo ancora una volta l’Europa come contesto in cui far valere il nostro peso e incidere sulle decisioni, cogliendo le occasioni per crescere, quasi da essa fossimo condannati al successo (come titolava un volume curato tra gli altri da Sergio Fabbrini).

Non sarà una crisi breve. La prospettiva di una lunga azione di trincea però genera foschi scenari con posizionamenti continui, perdite complessive per ambo le parti ed esanime, esangue il Paese. La fantasia politica italiana può giovare per scovare una soluzione, ma i tempi lenti degli anni Ottanta sono superati. Appoggio esterno, appoggio “estero”, governo “balneare”, governo dell’astensione, o della distensione… Governo Conte, governo Conte con/senza Renzi… Tutto tranne maggioranze abborracciate, improvvisate, patchwork parlamentari, non espressione di forze politiche, sociali, ma aggregazioni, di singoli feudatari. Siamo pur sempre il Paese del trasformismo, ma c’è un limite: la decenza.

Ancora una volta, l’ennesima, il Presidente della Repubblica, ha pazientemente tessuto le relazioni con i gruppi parlamentari, persuaso, ammonito, richiamato, ed ha assicurato che i piani economici fossero messi al riparo dalle intemperanze politiche e partitiche. Mattarella, che come sappiamo sarà in carica fino a febbraio 2022, ha anche invitato a lavorare uniti, il che non vuol dire che le forze politiche debbano insieme, tutte, sostenere lo stesso governo senza distinzione alcuna. Il varo del Conte ter non elude un prolungato negoziato, fuori e dentro il Parlamento. Per certi versi è un bene.

L’Italia però deve accelerare su vari fronti. Per molti aspetti la classe dirigente (non solo quella politica) appare sfalsata, sfasata, distonica rispetto alla popolazione. Il che ovviamente non implica seguire gli umori del volgo, come predica certo populismo. Ma la Democrazia cammina solida se tutte le parti sono incluse nel processo. La crisi, non quella di Governo, o quella parlamentare, ma quella sistemica è dietro l’angolo e potrebbe travolgere le istituzioni in un ben prevedibile collasso democratico. Ma, appunto, esistono i vincoli formali e congiunturali che reggono il corpo barcollante del Paese. Per poco ancora.

Il Sommo, scomparso settecento anni fa, si doleva del destino italico, sociale e politico. Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di provincie, ma bordello!» Usciamo dal Purgatorio.

BOLOGNA. Prima, di tutto.

Editoriale per Corriere della Sera (Bologna)

Difficile. Essere sindaco di una città prima in classifica per “qualità della vita” è una impresa ardua, tale da far desistere molti, tra gli umili e i consapevoli in particolare. O induce ad osare gli intrepidi, quelli con una visione, amore per la città, competenze e intuito politico.

Il risultato che indica Bologna in testa quanto a condizioni socio-economiche è la (ennesima) certificazione di quanto cittadini e ospiti (e persino turisti) possono immediatamente percepire visitandola, seppure per poche giornate o addirittura ore. Si tratta del compimento di un processo iniziato settant’anni fa, nei mesi della Resistenza che diede slancio alla passione civica, alla voglia di riscatto, di solidarietà, pace e progresso. Il disegno riformatore fu costruito dalle forze politiche progressiste e di sinistra, dal Partito comunista che fu intelligente a coinvolgere nel patto sociale tutte le forze vive della città, o meglio della regione. Non è un dono caduto dalla stratosfera, ma “frutto del lavoro” del popolo di Bologna, che con fatica ha compiuto un quasi miracolo portando la città da un cumulo di miseria ai fasti uguagliando le socialdemocrazie scandinave. Si tratta della lungimiranza di amministratori e politici (!), della capacità di elaborazione del Partito, della intelligente collaborazione con professionisti e intellettuali (si pensi a P. Cervellati su tutti). L’abilità nel fare sistema, coinvolgere gli interessi economici, sociali, cooperativi, sindacali e religiosi, con un approccio complessivamente pragmatico. Che del resto erano l’insegnamento e la linea dettate da Palmiro Togliatti nel suo “ceto medio e Emilia rossa”. Il tutto senza smarrire gli ideali di avanzamento sociale e civile, sebbene qualche scivolone ci sia stato come quando il Partito e l’Amministrazione risposero chiudendosi in modalità “burocrate automatico” nei confronti del Movimento nel 1977.

La classifica stilata annualmente da Il Sole 24 Ore merita attenzione e considerazione. I dati dicono che la città consolida la sua posizione su una serie importante di fattori, con la pessima prestazione sugli indicatori di “giustizia e sicurezza” la cui pur controversa interpretazione non puo’ però essere superata con una battuta di ciglia. I dati vanno presi tutti. E i dati, non per malafede, ma per scelta del “disegno di ricerca”, non dicono altre cose altrettanto importanti. Come il PIL che secondo la celebre critica di Bob Kennedy includeva i carri armati tra i prodotti della ricchezza. Non siamo a quel parossismo, ma una riflessione sul turismo mordi (distruggi il capitale sociale) e fuggi andrebbe fatta, con scelte conseguenti. È un po’ come aggiornare il paniere dell’inflazione che per qualche tempo ha tenuto dentro il costo dei fiammiferi, mentre il Paese si avviava al Wi-Fi.

Alcune cose non sono visibili alle rilevazioni, ma le sentono i cittadini. La paura del futuro, il timore in alcune zone in una città che per fortuna non ha periferie, la marginalità (che esiste sebbene meno isolata e stigmatizzata che altrove), la necessità di integrare, di rinsaldare i valori democratici e dell’antifascismo. L’evasione fiscale (abbattuta sui bus grazie a un lustro di azione/sanzione di Tper), il deciso calo di civismo “ordinario” ché basta fare una passeggiata/slalom sotto i Portici. O i troppi delinquenti dell’autocertificazione stanati dalla Finanza a dichiarare il falso per ottenere sussidi COVID non spettanti. Capitale sociale, civismo, cultura politica declinanti ormai da anni, e non rilevati tra gli indicatori aggregati di “ricchezza” e qualità della vita. Queste azioni le promuoveva il Partito, oggi troppo piegato sul versante governativo. Era un presidio, una sentinella attenta, madrina, ma anche vestale severa del civismo.

Sergey Bubka, un atleta sovietico specializzato nel salto con l’asta, per mantenere a lungo il primato mondiale, dopo aver provato in allenamento il massimo raggiungibile, durante le gare alzava l’asticella di un centimetro per volta. Così da potere ripetere il “record” dilazionandolo nel tempo. Per Bologna, dunque, la sfida è difficile perché dovrà fare sempre meglio. Da quel podio prima o poi scenderà di qualche posizione. E non sarà un dramma, è inevitabile, se insieme agli allori non avrà perduto l’anima.

Bologna (il dato fa riferimento all’intera provincia) merita il primo posto. E questo risultato è una sfida per il Partito democratico, chiamato a confermare la prestazione, e lo è anche per l’opposizione, la quale deve alzare il tiro e, di molto, la qualità della proposta per competere. Sarebbe anche ora che parlassero i “salotti” che, come ricordava E. Berselli, “formavano le opinioni, discutevano i problemi”. Bologna, capitale della questione morale (sempre Berselli), non è “sazia e disperata”, ma… deve stare molto attenta a non smarrire la bussola di città progressista, solidale, civica, colta, politicamente impegnata, attenta al podio, ma anche a quanti sulla tribuna non salgono ché invisibili, deboli, tristi, soli, poveri. Buon Anno, Bologna.

I DEM e le primarie. Scelte da compiere.

Sarà un test nazionale. E di questo bisogna tenere debitamente conto. Ché Bologna da sempre condiziona, incide, pesa sulla strada per il centro-sinistra italiano. Le elezioni amministrative della primavera 2021 vedranno al voto oltre 1.300 comuni, e cinque tra le sei città più popolose: Roma, Milano, Napoli, Torino e appunto la capitale felsinea. Dove la campagna elettorale non è affatto entrata nel vivo come spesso si racconta, ma stenta ancora soprattutto perché nessuno certifica chi sarà il candidato del Partito democratico, ossia colui/e che avrà l’onore e l’onere di provare a raccogliere il testimone di Virginio Merola, e il centro-destra si trascina stancamente rinunciando a competere.

Al carattere nazionale della consultazione per il governo di Palazzo d’Accursio si somma inevitabilmente la congiuntura, la pandemia, e questa combinazione rende necessarie scelte politiche coraggiose e innovative. Il PD sta provando a delineare un percorso e talvolta le critiche sembrano un po’ ingenerose rispetto a una delle poche forze politiche organizzate in cui (si potrebbe fare di più e meglio!) ci sono un dibattito, un confronto e una partecipazione politica degne di nota. Le recenti consultazioni condotte tra i “dirigenti” di medio livello del partito sono certamente un passo nella giusta direzione, ma non possono per nulla essere esaustive per delineare il quadro nella definizione del candidato sindaco. Gli iscritti al PD, gli elettori democratici e del centro-sinistra e persino i cittadini “interessati” andrebbero coinvolti, in una logica “estroversa” del PD, evitando una dinamica “introversa” e di chiusura che tanti danni ha generato nella società. Bologna serba risorse ampie e dense di partecipazione, espressa e potenziale, dai comitati, alle associazioni, ai sindacati, ai gruppi, ai movimenti, che apparirebbe davvero strano se il candidato a sindaco fosse selezionato da pochi intimi. I partiti, come dicevamo alcune settimane orsono su queste pagine, hanno il diritto di esercitare il ruolo di proponenti per evitare le derive populiste, ma al contempo devono leggere il contesto storico e sociale mutato. Un nome altro rispetto a quelli in circolazione, sebbene sempre possibile, appare difficile da far accettare al partito che con fatica rimane compatto, almeno formalmente. Né la strada del c.d. papa straniero – o briscolone che dir si voglia – sembra percorribile. Il “modello Cofferati” venne imposto da Roma, da Massimo D’Alema che voleva liquidare un personaggio scomodo per sé e per il partito e accettato per lavare l’onta del 1999; ma “non sono più qui tempi là” ché non c’è il Partitone e difficilmente l’intendenza seguirebbe. Ergo, saggezza suggerisce di coinvolgere the people. Gli elettori del PD e del centro-sinistra. La ritrovata “normalità”, principale lascito del decennio a guida Merola, come ha ricordato Olivio Romanini su queste colonne, dovrà essere affrontata con continuità, ma anche innescando rottura e innovazione per guardare alla città del 2050. Scelte eccezionali, coraggio, idee e proposte che andranno discusse con i cittadini e i corpi intermedi.

Se, dunque, la partita elettorale del 2021 non si giocherà solo a Bologna, ma avrà chiare ripercussioni anche sul piano nazionale, e in qualche misura l’intervento della cabina di regia del PD aiuterebbe a sbrogliare l’impasse locale, le primarie rimangono certamente la strada privilegiata.

Il Regolamento nazionale del PD indica nelle primarie la via maestra soprattutto allorché non ci sia un candidato uscente. Certamente le regole si possono cambiare, con il giusto consenso e le procedure adeguate, ma finché esistono non si puo’ derogare senza motivazione e spiegazione idonee. In assenza di accordo tra i quattro principali papabili espressione del PD, la soluzione va ritrovata nell’Assemblea cittadina del partito. Qualora ci fosse una maggioranza di delegati a favore di uno di essi formalmente si potrebbe non procedere alle primarie. Ma, temo, che senza un numero cospicuo di consensi (superiore ai due/terzi) il PD ne uscirebbe con gravi fratture organizzative e di tenuta politica. Per cui, si proceda all’organizzazione delle Primarie. Cui, dal punto di vista teorico, possono partecipare non più di 2 candidati del PD (la soglia minima di firme da raccogliere è pari infatti al 35% dei delegati): vista la forza potenziale dei tre attualmente in corsa, due potrebbero allearsi cont(r)o terzi ovvero si avrebbe una gara tra loro, cui aggiungere eventuali altri di partiti della coalizione.  Al netto della incertezza dovuta al COVID, che però non puo’ bloccare il pensiero e la lungimiranza nel progettare il futuro, il PD agisca iniziando a pianificare un percorso. Sarà importante decidere, e perciò discutere, su «Quando» svolgerle, su «Come» organizzarle, su «Chi» potrà accedere (quale candidato e quale elettore) nonché motivare adeguatamente il «Perché» e «Per cosa» il partito coinvolge i propri elettori. Se, come plausibile, e le elezioni si terranno in primavera – tra maggio e giugno – un periodo propizio potrebbe essere il mese di marzo, e perché no, proprio il 21, che sancisce la primavera oltre che la “giornata contro le mafie”. Due mesi prima del possibile voto sono esattamente il tempo necessario per “lanciare” la candidatura del prossimo aspirante sindaco, esattamente come avviene – mutatis mutandis – nel contesto americano. La crisi sanitaria, ed economica, potrebbero incidere negativamente sulla quantità dei partecipanti e su alcune categorie di cittadini. È possibile che ciò avvenga, ma non possiamo stabilire ex ante in che misura. C’è però il tempo sufficiente per mitigare queste conseguenze e, in ogni caso, una partecipazione per quanto limitata possa essere sarebbe meglio di un ristretto circolo di persone. Bologna, al solito, risponderebbe in maniera adeguata e il prescelto sarebbe più forte perché più legittimato. Inoltre, gli aspiranti sindaco mostrino ambizione e presentino il loro programma, ricordando altresì che dovranno parlare e governare per l’intera città – specialmente in caso di doppio turno – e non solo per e con il PD, e che quindi sarà richiesta una statura e una postura nazionale.