Semel senator semper senator

Editoriale per IL RIFORMISTA

Arturo Toscanini non rimase in carica neppure un solo giorno (del resto, il Maestro non ripeteva). Rifiutò garbatamente, ma senza esitazione la nomina a senatore a vita avanzata da Luigi Einaudi. Preferiva rimanere sobrio e appartato anche in vecchiaia. Dal 1948 in Italia si sono avuti 47 senatori a vita: 38 nominati dal Capo dello Stato e 11 per diritto, in quanto ex Presidenti della Repubblica, di cui due già senatori a vita al momento dell’elezione presidenziale (Giorgio Napolitano e Giovanni Leone).

La carica di senatore a vita è un istituto varie volte oggetto di attenzioni riformatrici, mai compiute tuttavia. La ratio del potere presidenziale previsto dall’art. 59 della Costituzione mira a conferire un solenne riconoscimento istituzionale a quanti abbiano dato lustro alla patria per «altissimi» meriti in ambito «sociale, scientifico, artistico e letterario». Il profilo dei nominati è tuttavia variegato. Insieme a esponenti del mondo culturale, quali Eugenio Montale, Gaetano De Sanctis, Eduardo De Filippo, Carlo Bo, Norberto Bobbio, R. Levi Montalcini, Elena Cattaneo, Liliana Segre, hanno ricevuto la carica senatoriale a vita anche figure politiche, nominalmente non ascrivibili nelle fattispecie indicate nella Carta. Insieme a Luigi Sturzo, Leo Valiani, Giovanni Spadolini e Meuccio Ruini, che avevano anche un profilo extra politico, troviamo esponenti di primo rango dei partiti politici: Ferruccio Parri, il citato Leone, Pietro Nenni, Amintore Fanfani, Giulio Andreotti, fino a Giorgio Napolitano. Ultimo, questi, in ordine di tempo, rappresentante della categoria “politici”, quasi a completare idealmente la copertura dei partiti dell’intero arco costituzionale.

La permanenza in carica dei senatori a vita è stata pari in media a circa undici anni per quelli nominati e dodici per quelli di diritto. L’età media al momento della nomina è pari a 77 anni per l’intero gruppo. Dei 47 senatori a vita solo 4 sono donne e nessuna ovviamente, ancora, per diritto. Tra gli ex presidenti, che assumono la carica senatoriale “salvo rinunzia”, soltanto Francesco Cossiga presentò le dimissioni, in due occasioni, una volta ritirandole e una seconda allorché l’Aula del Senato le respinse. Ma faceva parte del carattere “egocentrico” e provocatorio dell’ex ministro dell’Interno. Tra i nominati, invece Indro Montanelli rifiutò cortesemente proprio la proposta di Cossiga per ragioni deontologiche, per rimanere, in quanto giornalista, distinto dal potere politico.

Se guardiamo alle legislature, rileviamo che in media si sono avvicendati dieci senatori (di diritto e di nomina) per legislatura (sette considerando solo quelli nominati), con il picco delle legislature 1987-92 e 2001-06 (undici). Nel complesso, come da indicazione costituzionale, e con ampio consenso giurisprudenziale, il Capo dello Stato puo’ nominare “fino a” cinque senatori a vita purché quelli in carica per nomina presidenziale non siano in quantità superiore a tale numero. Einaudi ne nominò otto, Cossiga cinque, Leone uno, Saragat, Ciampi e Napolitano quattro, al pari di Pertini che con le sue scelte fece salire il numero di nominati oltre la soglia. Ragion per cui Oscar Luigi Scalfaro non procedette a nessuna nomina durante il suo settennato, motivando per tabula la sua interpretazione della Carta. E da allora sempre rispettato come orientamento quirinalizio.

La presenza dei senatori a vita nell’ordinamento e nel sistema parlamentare non ha generato problemi di tipo politico ché rimandava alle eredità ottocento e novecentesche delle cariche ereditarie e/o per diritto, per coniugare la rappresentanza popolare che irrompeva sul proscenio e l’animo “culturale” profondo della nazione. La prima fase del sistema politico e partitico italiano non è stata dunque condizionata da questa componente non elettiva fintanto che i partiti erano in grado di esprimere delle coalizioni a sostegno del governo. L’apertura della fase cosiddetta “bipolare” dal 1994 ha però posto alla ribalta il gruppo senatoriale: ad esempio, furono cruciali e a volte determinanti per la formazione del governo Berlusconi I, Prodi II, Conte II in taluni frangenti. Con tanto di epiteti nei confronti degli anziani senatori quasi non fossero legittimati ad esprimere le loro opinioni, il loro voto, ad esercitare le loro prerogative; come non ricordare gli epiteti nazi-razzisti rivolti dai banchi dell’estrema destra nei confronti delle senatrici Segre, Levi Montalcini, tra gli altri.

Il “problema” comunque permane e una riforma dell’articolo 59 pare dunque non rinviabile. Discussioni e proposte sono state avanzate in varie occasioni, e più recentemente durante la Commissione bicamerale guidata da Massimo D’Alema nonché nel quadro della riforma costituzionale “Renzi”, entrambe non approvate. Sintetizzando per ragioni editoriali, possiamo restringere a due le opzioni principali. L’abolizione della carica senatoriale a vita oppure lasciare in carica soltanto la figura dell’ex Presidente. Per la cui elezione sarebbe probabilmente il caso di riconsiderare, livellandola verso il basso, l’età per l’eleggibilità. In subordine si potrebbe espungere dalle prerogative dei senatori a vita il rapporto fiduciario nella dinamica Parlamento/Governo.

L’esiguità delle maggioranze parlamentari (il caso Draghi essendo, sperabilmente, l’eccezione), anche derivante dall’assegnazione su base territoriale/regionale dei seggi senatoriali elettivi, riporta in evidenza la necessità di discutere un istituto che rimanda a un altro periodo storico. Sei senatori, quelli attualmente in carica, possono pesantemente incidere sul rapporto rappresentante/rappresentato in una logica che però prescinde dal legame elettorale. Nelle more stuoli di personaggi che pensano di avere dato lustro alla Patria, covano una speranza. Fioca tuttavia.

Non Conte o Renzi. Italia, chiamò.

Editoriale per IL RIFORMISTA

La leadership la fanno il testo e il contesto. I vincoli e le opportunità formali, ma anche le condizioni date, nonché, evidentemente, i caratteri individuali. Inforcare le lenti della razionalità è poco o punto utile, non aiuta a comprendere, tantomeno a spiegare la crisi politica in corso. Ciascuno tra gli attori in gioco ha un proprio set di idiosincrasie, tattiche, strategie, fisime, ambizioni, vizi e virtù. A volte compatibili, altre non riducibili a sintesi. Tentare di ricondurre ad unum la molteplicità secondo schemi “logici” non giova, e soprattutto non è possibile. I protagonisti della crisi si muovono secondo schemi dettati da agende personali e di parte, “testa e cuore”, “lacrime e sangue”, “sangue e …”. La dovizia di dettagli di cronaca fa perdere lo sguardo lungo. Per cui meglio non indugiare su singole dichiarazioni di taluno. Esistono vincoli istituzionali, nazionali e internazionali ben più ampi, stringenti e di lungo periodo. L’Italia, Paese fondatore dell’Unione europea, membro della Nato, non puo’ agire come se fosse sganciata da legami storici, culturali, economici/finanziari, militari ed istituzionali con il mondo circostante. Di cui è parte integrante e in alcuni casi anche componente essenziale, come l’Europa. La quale, in quanto organizzazione sovranazionale con sogni e aspirazioni federalisti, non puo’ permettersi che un Paese cruciale come l’Italia sia in crisi. Non, evidentemente, in termini di legittima e libera competizione tra i partiti, di equilibrio tra poteri e cambio di maggioranze, di scontro tra leader di partito, o di sovranità parlamentare. Quanto in riferimento a una crisi sistemica verso cui il Paese si sta avviando. A prescindere da chi sia alla guida nella congiuntura. L’Europa, e l’ambiente internazionale, per quanto biasimati da una mentalità politica prevalentemente provinciale e avventata, rappresentano l’àncora di salvataggio dell’Italia.

I principii, le regole – quelle scritte e le prassi -, i rapporti di forza, gli interessi nazionali, i patti siglati e quelli da concludere, i negoziati e le trattative. Un insieme, una fitta rete di relazioni che pongono l’Italia in un contesto ben più ampio di una conferenza stampa o di una passeggiata a favore di telecamera.

Lo status, il prestigio del nostro Paese sono stati faticosamente costruiti sulla reputazione, la capacità di portare a termine il compito assegnato, di rispettare le regole. E all’estero, bon gré mal gré, a torto e a ragione, in taluni ambienti l’immagine del made in Italy politico è ancora piuttosto fragile. Ricordiamo che fu solo grazie ad Azeglio Ciampi che i tedeschi accettarono di includere l’Italia nel club Euro ché mal celavano sfiducia verso il complesso del sistema Paese. I galloni si guadagnano sul campo, e non dipendono soltanto dalla presenza di ministri credibili (e qualcuno andrebbe defenestrato ad horas), ma dalla capacità di rispondere ai problemi seriamente ed efficacemente. Gli americani la chiamano delivery.

Il Presidente del Consiglio dei Ministri, in quanto tale, ha il dovere, l’onere e persino l’onore di condurre il Governo, e di “dirigerne” la politica (art. 95 della Costituzione), ma è anche dinanzi alla sfida politica di tenere insieme la coalizione. Al di là dei punti di vista individuali e di tutte le posizioni e le mutue critiche legittime, è il capo del governo a dovere tenere unita la maggioranza, con l’ausilio dei partiti e dei loro leader. Più o meno simpatici, avventati, improvvidi, lungimiranti, scontati, coraggiosi, pavidi, tattici o strateghi, ciascuno li reputi a seconda delle sintonie politiche. E procedere ad azioni congruenti. Vero che la situazione è grave, inusitata, inedita, eccezionale, ma su taluni passaggi non potrebbe tacere nemmeno il più fervido, fervente sostenitore acritico. Le scuole e le università andrebbero riaperte, con criteri e in sicurezza, al più presto. Per esempio. Senza indugi.

L’arrocco di Matteo Renzi, dopo la “mossa del cavallo”, è difficile da decifrare per quanto detto sin ora in termini di limiti di “testo e di contesto”, di umane fragilità e in-compatibilità. Nel merito il senatore Renzi ha proposto, e in parte ottenuto, modifiche ragionevoli, sensate e assai utili sulla gestione del Recovery Fund; avrebbe forse potuto entrare nell’esecutivo occupando un dicastero prestigioso e da lì fustigare. Analogamente, il Partito democratico pare avere maturato la convinzione di dover virare su un’azione maggiormente riformatrice, decisiva, visibile, concreta, votata all’uguaglianza, agli investimenti e meno alla distribuzione, alla prospettiva di lungo periodo. Tutte azioni nelle corde, nelle idee e nella storia del PD che quindi ha il dovere di metterle in pratica. Senza tergiversare oltre ovvero dire che tutto sommato molto è stato fatto. Il Paese aspetta e merita di più. E in questo ancora una volta l’Europa come contesto in cui far valere il nostro peso e incidere sulle decisioni, cogliendo le occasioni per crescere, quasi da essa fossimo condannati al successo (come titolava un volume curato tra gli altri da Sergio Fabbrini).

Non sarà una crisi breve. La prospettiva di una lunga azione di trincea però genera foschi scenari con posizionamenti continui, perdite complessive per ambo le parti ed esanime, esangue il Paese. La fantasia politica italiana può giovare per scovare una soluzione, ma i tempi lenti degli anni Ottanta sono superati. Appoggio esterno, appoggio “estero”, governo “balneare”, governo dell’astensione, o della distensione… Governo Conte, governo Conte con/senza Renzi… Tutto tranne maggioranze abborracciate, improvvisate, patchwork parlamentari, non espressione di forze politiche, sociali, ma aggregazioni, di singoli feudatari. Siamo pur sempre il Paese del trasformismo, ma c’è un limite: la decenza.

Ancora una volta, l’ennesima, il Presidente della Repubblica, ha pazientemente tessuto le relazioni con i gruppi parlamentari, persuaso, ammonito, richiamato, ed ha assicurato che i piani economici fossero messi al riparo dalle intemperanze politiche e partitiche. Mattarella, che come sappiamo sarà in carica fino a febbraio 2022, ha anche invitato a lavorare uniti, il che non vuol dire che le forze politiche debbano insieme, tutte, sostenere lo stesso governo senza distinzione alcuna. Il varo del Conte ter non elude un prolungato negoziato, fuori e dentro il Parlamento. Per certi versi è un bene.

L’Italia però deve accelerare su vari fronti. Per molti aspetti la classe dirigente (non solo quella politica) appare sfalsata, sfasata, distonica rispetto alla popolazione. Il che ovviamente non implica seguire gli umori del volgo, come predica certo populismo. Ma la Democrazia cammina solida se tutte le parti sono incluse nel processo. La crisi, non quella di Governo, o quella parlamentare, ma quella sistemica è dietro l’angolo e potrebbe travolgere le istituzioni in un ben prevedibile collasso democratico. Ma, appunto, esistono i vincoli formali e congiunturali che reggono il corpo barcollante del Paese. Per poco ancora.

Il Sommo, scomparso settecento anni fa, si doleva del destino italico, sociale e politico. Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di provincie, ma bordello!» Usciamo dal Purgatorio.

Il PD non cambi simbolo

Il PD non cambi simbolo

Editoriale per Corriere della Sera (Bologna)

La Coca Cola investe milioni di euro in pubblicità ogni anno. E, sostanzialmente, non ha mai cambiato brand; la ragione principale è che i consumatori conoscono e si riconoscono nel nome e nel simbolo della bibita per eccellenza. E per questo lo ri-acquistano, ovvero lo detestano, ma sanno di cosa si tratta. In termini politici potremmo prendere l’esempio del partito Socialista Obrero Espanol, ossia il PSOE che non ha rinunciato ai suoi riferimenti “operai” e al simbolo benché possano apparire alcuni, come il garofano, il pugno e il termine “operaio” possano apparire come “superati”. Certamente, per evitare defezioni di elettori e di consumatori, partiti ed aziende tendono ad adattarsi al “mercato” di riferimento. Tutto sommato pero’ il cambiamento di nome e/o simbolo per essere credibile deve sostanziarsi in una mutazione di contenuto ed identità. Non ad una facciata. E’ la cruciale differenza tra il concetto di Partito nuovo e nuovo partito fatta da Antonio Gramsci.

Per queste ragioni, l’idea avanzata dal sindaco di Bologna Virginio Merola appare sbagliata nel merito, nel metodo e rischia di far sbandare il Partito democratico. Se l’intento è il rinnovamento allora le nuove proposte di “partito nuovo” vanno avanzate e discusse. Viceversa, se il tentativo e’ quello di una mosca cocchiera solo per le prossime elezioni comunali, forse è meglio soprassedere.

In sintesi, bisogna decidere se il problema è il cambio del simbolo del Pd (per le elezioni di Bologna) o la richiesta di un’unica coalizione dove l’etichetta civica richiama alla distanza e alla vaghezza nei confronti del politico? Del resto, l’utilizzo delle liste civiche viene spesso utilizzato a livello locale per sbiadire appartenenze politiche pensando di attrarre elettori fuori dallo schema destra-sinistra. A Bologna pero’ tale tattica pare lunare.

Il PD credo abbia bisogno di profonde riforme certamente, ma anche di conferme e di ri-costruire la propria identità, senza cestinare in un solo colpo la (breve) storia iniziata nel 2007 allorché si propose come “partito nuovo”. Come riportata dai media la prospettiva delineata da Merola parrebbe una rivisitazione tardiva e fuori luogo di una lista civica “Due Torri” 2.0 che pero’ non trova conferme empiriche quanto a capacità attrattiva. Illo tempore era tutto molto diverso, ma oggi, paradossalmente, l’identità rappresenta un potente attrattore di consensi. Dopo tutto, e non e’ poco, il PD e’ il primo partito in città e oscurando il nome apparirebbe come una forza che si vergognasse della propria storia e quindi celasse quanto ha fatto. Nel bene e nel male. Merola è politico di lunga esperienza, e quindi l’esternazione è plausibilmente legata al tentativo di superare l’impasse in cui la scelta della candidatura del successore pare stia incagliandosi.

Il Corriere di Bologna ha per primo aperto il dibattito sulle primarie, che paiono lo strumento meno doloroso per dirimere le dure lotte sotterranee di questi mesi, tra contendenti, aspiranti e gruppi di pressione.

La legittima aspirazione di Matteo Lepore pare essersi stranamente impantanata tra veti piu’ o meno palesi, autocandidature (alcune delle quali un po’ fuori luogo), nomi di papi stranieri e fughe dalle primarie. La soluzione è invece meno complessa. Il PD (primarie o meno) dovrebbe tornare a parlarsi, costruire consenso, con negoziazioni, intese e persino “scambi”. Quindi il dibattito sul nome/simbolo del PD pare un modo per “scappare” dal PD e dalla sua articolazione.

Il partito democratico e quello repubblicano negli USA, per rimanere al Paese in cui si voterà tra poche settimane, sono cambiati profondamente, a tratti radicalmente, negli ultimi decenni. Ma non hanno mai cambiato nome e/o simbolo. Cambiare il (solo) nome non serve, è sbagliato e soprattutto non basta a perseguire i fini indicati nella proposta avanzata in questi giorni. Per cambiare davvero servono nuove idee, nuove prospettive, nuovi orizzonti e una diversa collocazione geo-politica. Ma allora non basterebbero certo pochi mesi per approntare tale progetto in tempo per il voto. Pertanto il rischio, forse calcolato, è che azioni di marketing implichino quanto detto da Tancredi nel Gattopardo: «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi.» Meglio discutere di contenuto che di etichette.

Il Sud respinge l’opa di Salvini

Il Sud respinge l’opa di Salvini

Napoli, la prima città d’Europa a liberarsi autonomamente dal nazifascismo durante le celebri “quattro giornate”, magnificamente ricordate nel film omonimo diretto da Nanny Loy. La capitale Partenopea, ostile a ogni “invasione”, rappresenta l’ostacolo più arcigno al tentativo della Lega (Nord) di  avanzare al Sud, una mascarade guidata dal Sen. Salvini – di cui abbiamo parlato su queste colonne – e già fallita nei fatti perché mendace e infondata sul piano culturale.

Proprio al Sud la Lega rischia molto alle imminenti elezioni regionali, in un contesto complessivamente sfavorevole al Carroccio.

Sul piano internazionale l’alleanza ultra-conservatrice miete meno successi che in passato sebbene sia ancora solida nel complesso, e in molti ambiti, certamente quello economico-finanziario, continui ad essere influente o egemonica. Le singole realtà della rete del varipointo gruppo che trae ispirazione da D. Trump, J. Bolsonaro, M. Le Pen e dalla “foto” di Visegrád sono paradossalmente esposte proprio agli effetti dell’isolamento nazionalista. La torsione individualista inflitta dal Covid-19 ai sogni di geopolitica sovranisti ha mostrato l’irricevibilità teorica prima che pratica del modello che mira al ritorno di fiamma delle (piccole) patrie. Mentre la forza economica, militare, e la statura di altri leader consente pero’ di sopravvivere almeno sul piano nazionale, la Lega (Nord) paga l’irrilevanza della visione e dello spessore politico-culturale del senatore eletto nella Locride.

Stretta e ristretta dunque nella geografia dello Stivale, la Lega (Nord) punta a rimediare al crollo di consensi che la investe da un anno almeno. L’abbandono del Governo nell’estate in cui l’ex Ministro dell’Interno vestì i panni del bullo di periferia ha marcato l’inizio della fine per un progetto cui oltre alle citate idee e prospettive teoriche e culturali, manca oggi anche la copertura aerea delle risorse (latu sensu) derivanti da incarichi istituzionali. Il ricorso disinvolto ai benefici delle funzioni di Governo lascia spazio a pesanti costi organizzativi in una fase di allontamento di iscritti, simpatizzanti e donatori vari. Cui si sommano i problemi giudiziari del Sen. Salvini per la vicenda migranti nonché quelli legati alla galassia di procacciatori di affari legati al partito. Al netto del procedimento giudiziario che deve ovviamente garantire ogni cittadino, nel complesso queste condizioni “di contesto” non aiutano il Sen. Salvini né la Lega (Nord) a detrimento dell’imagine e dell’attrattività del partito.

Infine, il contesto locale, pur nelle specificita’, rimanda a un “terreno di caccia” complicato, per un leader che ha perso il momentum, e un partito scavalcato a destra da Giorgia Meloni, e con la crisi economica che ha sbiadito il tema immigrazione, palesando il balbettio leghista sulle proposte.

Da sempre Napoli ha rappresentato la gola stretta, ostico budello per il passaggio dei “barbari sognanti” verso i mari caldi e i bacini di voti di elettorali “volatili” del Sud. I segnali sociali che provengono dalla Sicilia, dalla Calabria, da Torre del Greco e da Napoli indicano che l’aria è cambiata davvero. La Lega torna al Nord.

In Campania la lista di Salvini andrà sotto al 5% scomparendo dai radar locali; in Puglia se Michele Emiliano fosse sconfitto a prevalere sarebbe il centro-destra a trazione “Alleanza nazionale”, da sempre forte in regione, e forzista, ossia la “Casa della liberta’” rivista e corretta, con la Lega a traino. La stessa dinamica si potrebbe avere nelle Marche, sebbene la portata del cambio di governo sarebbe più ampia, ma avrebbe comunque la Lega (Nord) in posizione ancillare. L’unica vittoria quasi certa, anche per abbandono dell’avversario, è il caso Veneto, in cui il centro-sinistra ha rinunciato troppo presto, assecondando l’adagio non verificato del “buon governo” di Luca Zaia. Uomo politico della Lega (Nord), o meglio della Łiga Veneta, militante da sempre, ma competitore diretto del segretario nazionale e percio’ non ascrivibile alle vittorie di Salvini. La Liguria delle fazioni a sinistra, delle vendette e dei ricatti, menù fisso dei progressisti, vede al vertice della Giunta un politico affine alla Lega e a Salvini che pero’ difficilmente potrebbe includere tra le vittorie stretegiche delle camicie verdi-brune.

Rimane la Toscana, diventata suo malgrado luogo di una finta sfida all’O.K. Corral, mentre in realta in un Paese “normale” si tratterebbe solo di una competizione locale. La vittoria della coalizione di centro-destra non sarebbe un attentato alla democrazia, al netto dell’insipienza delle proposte politiche della candidata alla Presidenza e degli strafalcioni sulla Storia. Si tratterebbe semmai di fisiologica, e persino auspicabile, alternanza al potere. Ma la sinistra, e Matteo Renzi, dominus della regione, ne hanno fatto un luogo e una contesa meta-simbolica in cui si gioca una partita nazionale  (come lo scorso anno in Emilia-Romagna) nella quale l’ex Presidente del Consiglio puo’ segnalare la sua rilevanza e indispensabilità. Ma in assenza di un progetto nazionale sifdante, e in difficoltà per la coabitazione con il populismo del Movimento 5 stelle, il PD inscena la consueta battaglia di civilta tra il “bene” e il “male”. Uno schema schmittiano, in atto stancamente dal 1994, che va bene a Salvini, a Renzi e al PD in cui tutti gridano alla liberazione.

Tuttavia, nella trasposizione cinematografica della Resistenza napoletana delle “quattro giornate” c’è un eccelso Gian Maria Volonté, che guida il riscatto, la dignità e il valore del Sud, e metaforicamente dell’Italia intera a pochi giorni dell’8 settembre. Fuori dai teleschermi non si intravede analogo afflato, ma solo lo scimmiottamento in chiave iper-realista. Ne riparleremo.

Il partito di Conte? L’illusione del consenso

Editoriale per Il Riformista

Affinché la società progredisca e avanzi è necessario che qualcuno tenti l’impossibile. A farlo sono notoriamente i capi che, secondo Max Weber (di cui ricorre il centenario della scomparsa), in qualche misura devono essere anche «eroi», nel significato «sobrio» della parola. Questa intrapresa di “progresso” è stata recentemente affidata ai cosiddetti “partiti personali”. Un ossimoro, un errore di definizione e concettuale. Si tratta di formazioni politiche, di partiti a bassa intensità democratica, con forte verticalizzazione, elevata gerarchia unita a bassa densità organizzativa e con grande influenza del capo. Che sovente è il fondatore del partito è in taluni casi anche il proprietario, come nel caso notorio di Forza Italia/Silvio Berlusconi e, almeno nella prima fase, del Movimento 5 stelle/Casaleggio. Nei partiti del capo il leader sovrasta l’organizzazione o il partito, lo rappresenta, lo incarna, lo evoca e lo simboleggia, e il partito stesso si identifica con lui. Il nome del capo accompagna quello del partito, a volte diventandone sinonimo e assumendo caratteri fungibili. In Italia, contrariamente a quanto si legga e (mi dicono) si senta, esistono in realtà “partiti con un capo” e soprattutto “liste personali”, entrambe spesso sopravalutate e sovrastimate. Recentemente il “dibattito” si è concentro attorno alle potenzialità elettorali di un “partito” guidato dal, e quindi del, Presidente del Consiglio dei ministri, Giuseppe Conte.

Diversi istituti demoscopici hanno segnalato un “peso” elettorale pari in media al 10% circa. Di primo acchito sembrerebbe “molto”, ma potrebbe esserci uno scarto rispetto ai voti reali. Non sono certamente i ricercatori a sbagliare, ma chi li interroga a porre la domanda sbagliata. In questa fase la popolarità è elevata e quindi molti elettori sono propensi a un sostegno futuribile che non costa nulla e non comporta responsabilità. Qualora invece sulla scheda elettorale comparisse un “partito di Conte” i risultati credo sarebbero assai meno lusinghieri, poiché al momento del sondaggio non viene inclusa la dinamica, meccanica e psicologica, della campagna elettorale. L’Italia è stata scenario per diversi casi di questa categoria con caratteristiche a volte diverse, ma tratti simili. Non basta aggiungere il proprio cognome (e nome) per fondare un partito, tantomeno per “creare” un partito personale, ché per nascere e prosperare necessità di molto più di un semplice gesto volitivo. La maggior parte sono “liste elettorali” personali con forte enfasi sul loro capo, che hanno avuto alterne vicende e in media deboli, se non scarsi e comunque effimeri risultati, e solo in pochi casi hanno riscosso ampi e duraturi successi. Il caso recente più eclatante, e simile a quello evocato o invocato per il Presidente Conte, è la lista Scelta civica-Monti, accreditata di molti consensi rispetto al pur importante 8% raccolto nel 2013 sebbene non sufficiente a fungere da ruolo pivotale in Parlamento, e poco dopo discioltosi. C’è poi la disastrosa esperienza elettorale della Lista Futuro e Libertà capitanata da Gianfranco Fini, che raccolse lo 0.5% benché a ridosso del lancio della nuova forza politica fosse accreditato di un valore superiore al 10%. Casi analoghi sono quelli della Lista Ingroia o quella Popolare/Lorenzin. In questa categoria di liste “personali” rientrano anche le formazioni promosse dal sen. Matteo Renzi e dal deputato europeo Carlo Calenda, o anche L’Uomo Qualunque di G. Giannini. Viceversa, esistono esempi di partiti abbastanza strutturati affiancati da una forte leadership personale, come Fratelli d’Italia/Meloni, +Europa/Bonino, SEL/Vendola, UdC/Casini che possono sopravvivere al proprio leader purché il partito non sia stato fagocitato dal capo stesso, come accadde ad esempio a IDV/Di Pietro, la cui sfortuna politica travolse l’intera organizzazione.

Come è evidente, non ci si improvvisa Charles De Gaulle o Berlusconi, Emmanuel Macron e nemmeno Juan Perón. L’ambizione è un bene prezioso in politica e nella società, ma il velleitarismo genera forte disillusione e alimenta la continua ricerca di un altro leader, consumando nelle more gli anticorpi democratici che invece richiedono partecipazione diffusa e intensa.

I partiti personali e/o del capo non sono perciò così diffusi come si potrebbe immaginare, ma al più sono comitati permanenti per la promozione del loro leader. La nascita di un partito non è un evento frequente poiché le nuove organizzazioni debbono innestarsi su fratture politiche e sociali (cleavages) e politicizzarle, proporre una nuova visione e persino ideologie, oltre ad avere ovviamente un “imprenditore politico” (in senso Schumpeteriano) in grado di farlo. Insistere sulla sola dimensione personale denota affetto per il tratto autoritario insito nelle liste del capo. Siamo invece spesso di fronte a partiti Tigri di carta, come li ha definiti Eugenio Pizzimenti (Pisa University Press 2020). Attenzione a confondere, sovrapporre, o persino sommare la “popolarità”, la riconoscibilità di talune figure politiche eminenti con la caratura elettorale allorché guidassero un partito “proprio”, cosa diversa da un partito di cui sono a capo.

Dunque, i partiti del capo sono l’eccezione, accompagnati da una miriade di liste “personali”, pochi capi senza partito, e vari partiti senza capo (né coda).