Preferential Voting Systems

My latest book

This book examines the effects of preferential voting on intraparty electoral competition and voting behavior. Using data covering 19 countries and over 200 elections, this study sheds light on a somewhat neglected aspect of electoral systems. The author demonstrates that the ability of voters to influence the selection and deselection of MPs under preferential voting systems is not as important as is often assumed.


Instead, their ability to shape the election of a given candidate depends heavily on the balance between party power and voter power. In this way, this book advances the understanding of the effect of preferential voting on intra-party dynamics, parliamentary turnover, and voter behavior. Based on a rigorous, data-led methodological approach, the book contributes to both the theory and practice of the study of electoral systems, and should be read by scholars, students and practitioners interested in preferential voting systems.

 

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L’Italia e la Repubblica salvate dalle donne

Quando si parla delle donne, non solo in Italia, si parla in realtà degli uomini. Per questo, passata la data cruciale dell’8 marzo, è possibile ragionare con maggiore distacco sulla condizione femminile oggi, anche in Italia.

Lo status delle donne è stato per secoli, infatti, definito dalle decisioni assunte dagli uomini, e ancora oggi viviamo quel retaggio, quell’eredità pesante, vischiosa, lenta a cancellarsi perché incistata nelle menti degli uomini. Rimanda alle caverne, alle società primordiali, alle divisioni dei compiti in un mondo ostile che non ha più senso.

A diverse latitudini e in vari periodi storici, il “ruolo” delle donne è stato derubricato in base alle necessità, al disegno, agli schemi di potere dettato e imposto dagli uomini. Se non si capisce questa semplice ma cruciale distinzione inutile inoltrarsi nei meandri delle sfumature. La politica, l’economia, la religione hanno confermato, ribadito, inciso su pietra che così fosse e dovesse essere secula seculorum.

Con il tempo, in ogni luogo le donne hanno cambiato la loro condizione, con e senza l’aiuto e il sostegno degli uomini. Ancora molto resta da fare perché i diritti degli esseri umani di sesso femminile siano riconosciuti e pienamente attuati.

La Storia femminile italiana è tutto sommato recente. Il diritto di voto esercitato nel 1946, ma in realtà conquistato durante la Resistenzacon il sangue versato sui monti e il sudore a casa, e l’impegno politico e sul posto di lavoro.

L’articolo 3 della Costituzione richiama chiaramente il vuoto da colmare e i presidi da tutelare. In passato era “Dio – Patria – Famiglia”, una triade indissolubile, che nulla toglie alla sfera individuale quando si approccia a ciascuno di essi singolarmente.

L’elemento dirompente, tipico delle dittature fasciste era chiaro: 1) Un solo Dio, quello cristiano; 2) Una sola Patria, per la quale i nazionalismi chiedono di immolarsi; 3) Una sola famiglia, quella che lo Stato etico decide sia “giusta”.

A tal proposito ricordo un dibattito televisivo – credo sulla CCN quando ero all’Università di California per seguire le elezioni presidenziali del 2012 – allorché il candidato vicepresidente Paul Ryan, repubblicano, disse che la famiglia era e doveva rimanere quella “tradizionale”. Il giornalista lo interruppe e gli segnalò quanto la “tradizione” dipenda dalla dimensione spazio-tempo e dalla cultura del tempo. Tradizionale è anche poligamia, incesto, adulterio, femminicidio, lo stupro (do you remember il “ratto delle Sabine?”), dipende dal momento storico.

Che facciamo, torniamo alla legge del taglione? Bene, assodato che “tradizione” è uno strumento abusato dagli uomini per tenere le donne sotto controllo, è ora che l’Italia si liberi dalle ottuse visioni di uomini caverna. Quella triade rimanda a uno schema valoriale in cui segnalare peccati e peccatori, giusto e sbagliato.

E il Fascismo aveva bene in mente cosa lo fosse e cosa no. Basta vedere Una giornata particolare, basta leggere la Storia, basta curiosare tra le rughe delle anziane chine nei campi per anni per i padri padroni che giocavano a carte nei bar.

Lo stupro, considerato reato contro la morale fino a pochi lustri fa, il delitto d’onore abolito nel 1981 (millenovecentoottantuno), la fuitina, il matrimonio riparatore e le ribellioni a queste violenze (per tutte il caso di Franca Viola nella Sicilia machista). E ancora il femminicidio (centinaia all’anno), la prostituzione, ossia lo schiavismo sessuale sfruttato da uomini (184 uccise dal 2000), i manicomi per le “pazze”, i conventi per le indegne, le zitelle. La Legge 40, le alchimie da ciarlatani sul referendum, le battaglie in tribunale per il riconoscimento all’eterologa, nel 2014 (duemilaquattordici).

E ancora, ma non per ultimo, l’aborto che sarà la prossima tappa degli attacchi al ruolo della donna, le mammane, il prezzemolo e i ferri da maglia, l’obiezione di coscienza (!). Lo scalpore per le donne in camice da ospedale o alla guida di un bus, le prime magistrate negli anni Sessanta (del Novecento) “che prima non era possibile ché avendo le mestruazioni le donne sono instabili e non in grado di giudicare”.

Ovviamente c’è anche la politica. Il comportamento elettorale, e le donne che votavano prevalentemente DC perché glielo chiedeva il parroco di sostenere lo “scudo crociato”, con tanti bei saluti al marito comunista o socialista (nella cabina elettorale ricorda “Dio ti vede, Stalin no”).

La distinzione di genere nel voto è oggi meno forte, a parte per alcuni partiti più maschi (vedi Lega) o Forza Italia ancora forte tra le anziane. In genere le giovani leve sono più progressiste, quando votano, e addirittura si mobilitano di più come visto anche recentemente. Ma le donne in politica fecero scalpore, ritenute non adatte a “cose da uomini” (vedete, significa che gli uomini decidevano per tutti), addirittura sindaco, ministro. Presidente della Repubblica no, ancora non siamo maturi, pare. Mentre succede in Cile, Finlandia, Lituania, Croazia, Irlanda, Brasile…

Quanto restii siano gli uomini a cedere il loro potere, rimando all’introduzione del voto di preferenza (come ricercatore lo sconsiglio), ma se adottato meglio che preveda due opzioni almeno, una per genere. È quello che stanno meritoriamente provando a fare donne tenaci e capaci fuori dal Consiglio regionale della Calabria, un covo di maschilisti ostili a qualsiasi cambiamento ché non saprebbero che fare da cittadini ordinari.

Le donne vanno escluse, per mantenere il monopolio sulla società, altrimenti lo schema definito dall’uomo – che è uno schema economico, di rapporti di forza – viene meno. E addio dominio.

Ci sono eccezioni, Ocasio-Cortez, che batte un boss del partito democratico americano, e molti altri casi in giro per il mondo. Ma ci sono anche amare conferme, come nel caso di Hillary Clinton il cui elettorato più ostile è stato quello “bianco, poco istruito e ortodosso in religione”.

Clinton è stata oggetto di razzismo sessuale, va bene un “negro” ma mai una donna, come tale mai potrebbe guidare il Paese. E in Italia il massacro a Laura Boldrini, non su punti politici (su cui si può ovviamente discutere), ma in quanto donna. Ricordiamo cosa dissero il comico-politico Beppe Grillo o Salvini. Se non lo si capisce, meglio cambiare canale.

Questo quadro poco rassicurante è però parte della Storia. Ci sono migliaia di donne nel mondo che lottano ogni giorno e la situazione lentamente, ma inesorabilmente cambia, cambierà. Dal 1946, le donne sono entrate in politica, nella ricerca, all’università, nell’alta dirigenza. Sono però escluse dalle posizioni apicali, non riescono cioè a rompere quel soffitto di cristallo, invisibile eppure coriaceo. E in questo la cultura dell’estrema destra di governo conferma anni di oscurantismo, con le reticenze bigotte e i ritardi di una parte della sinistra. Anche quella che pensa di essere progressista.

L’Italia è progredita grazie a persone come Lina Merlin, Emma Bonino, Elena Cattaneo, Samantha Cristoforetti, Rita Levi Montalcini, Grazia Deledda, Margherita Hack, Nilde Iotti, Alda Merini … e ne scordiamo decine di altre. E al movimento femminista e femminile, nonché alla coriacea straordinaria azione di donne ordinarie all’interno delle proprie famiglie che vanno ascritte molte conquiste, molti diritti, molte tutele. Non siamo al punto zero, ricordiamocelo, ricordatelo. Per capire bene però quale sia lo stato di salute sociale e politica delle donne è necessario guardare in prospettiva.

Ora però sembra che molti vogliano farlo tornare indietro, che gli uomini, quelli bigotti e retrogradi siano tornati in auge. La cronaca offre spunti terribili e per nulla edificanti circa il trattamento riservato alla “metà del cielo” del Pianeta, alle donne.

Di primo acchito non si capisce bene cosa vorrebbe insegnare agli “immigrati”, quasi fossero tutti trogloditi, Matteo Salvini con gli strali da società chiusa. In realtà lo capiamo benissimo. Un modello di società in cui viga la paura, che rimanda al caro vecchio mondo antico, che poi non era né pacifico, né ameno, ma basato sullo sfruttamento dell’uomo sulla donna.

Donne, la Lega è un partito maschilista, reazionario, vecchio, fatto di uomini e per soli uomini, per quelli che pensano che dobbiate rimanere a casa di sera.

E in questo panorama, il balbettio del mondo di Sinistra, i distinguo, la libertà sessuale (per lo sfruttamento? Are you serious?) o sull’utero in affitto. Coloro che circondano Salvini con proposte da Streghe di Salem fanno rabbrividire. È necessario reagire punto su punto, con la cultura, sempre.

Visto il poco coraggio, l’indecisione, la pusillanimità, la mediocrità, e la avidità di molti uomini di potere, è il momento che le donne scendano in campo, ciascuna nel suo. Con un chiaro obiettivo: emancipare il Paese, renderlo più libero, vivo, sereno, aperto, solidale, pacifico, progredito, colto, efficace e produttivo.

Come cantavano le mondine chine per ore come gli schiavi del cotone, care donne, ripetetecelo che “abbiamo delle belle buone lingue e ben ci difendiamo!”

Donne, uscite, unitevi e fatevi sentire. Fate politica. Salvate l’Italia, salvate la Repubblica. Salvateci.

La Lega di Salvini. Estrema destra di governo

Da tempo la Lega ha scelto di posizionarsi nell’area dell’estrema destra: una virata che ha consentito al partito di legittimarsi come forza trainante della coalizione conservatrice, tanto da stravolgerne l’assetto indebolendo l’area moderata.

Nello scenario emerso con il voto del 2018 la Lega compete con l’altra formazione anti-establishment, il Movimento 5 Stelle, nel tentativo di monopolizzare il disagio economico e il disorientamento elettorale e di ricomporre, sul piano socio-territoriale, le istanze di cambiamento avanzate dagli elettori. Uno scenario inedito in cui due frères-ennemis si disputano l’egemonia politica e culturale in Italia.

LEGGI il LIBRO (dal 20 settembre in libreria)

La Lega oltre la protesta, quasi al governo

Gianluca Passarelli e Dario Tuorto (Mulino)

Era nelle cose che la Lega avanzasse e riempisse un vuoto: il responso elettorale del 4 marzo ha sancito il successo della strategia di Matteo Salvini. Il 17% su scala nazionale, che fa della Lega la terza forza politica del Paese a un solo punto di distanza dal Pd; è il risultato più alto nella sua storia, ormai trentennale. Ma il successo più importante è il sorpasso netto su Forza Italia, in un quadro di rapporti di forza interni alla coalizione rovesciati al punto da rischiare di destabilizzare un centrodestra senza i numeri per governare da solo. Siamo qui in presenza di un vero e proprio ribaltamento del forza-leghismo lucidamente delineato da Edmondo Berselli. Siamo al leghismo-forzista, ma la sostanza non cambia: è in quel magmatico mondo ostile al civismo repubblicano che Salvini ha fatto il pieno.

Francamente non c’è da sorprendersi, almeno tra chi studia il partito da tempo. Gli elementi sociali, politici ed elettorali per l’avanzata leghista c’erano tutti. L’exploit della Lega parte dal 2010 e continua nei due anni successivi, nonostante gli scandali e la successione a Bossi. In questa fase convulsa del partito Salvini inizia a costruirsi uno spazio politico autonomo sino alla scalata a segretario federale. La linea dirigista imposta dal nuovo leader lo porta a marginalizzare i rivali, a partire da Flavio Tosi per arrivare allo stesso Roberto Maroni che pure aveva legittimato la sua ascesa.

Dopo il 2012 la Lega si sposta definitivamente a destra. Se negli anni Novanta i voti provenivano soprattutto dal centro dello spettro politico-ideologico, nel periodo successivo si assiste a uno slittamento progressivo dell’elettorato su posizioni più estreme. Questo cambiamento investe anche i militanti, in particolare i nuovi iscritti; una componente meno interessata alle questioni del regionalismo e dell’economia e sempre più “estremista”, intollerante, autoritaria. Già da alcuni anni, dunque, la Lega si è andata configurando come una formazione xenofoba e politicamente violenta. Nonostante ciò, in Italia, la classe dirigente e la borghesia hanno faticato ad accorgersene trattando con indulgenza un fenomeno allarmante. In altri Paesi, più civili e meno ipocriti, chi occupa posizioni chiave nella società e nella politica prende le distanze dall’estrema destra. Uno per tutti: Jacques Chirac nel 1997 decise di non stare con Le Pen per disciplina repubblicana, al costo di perdere le elezioni.

Coerentemente con la strategia di riposizionamento ideologico, la Lega compie, sul piano programmatico, una torsione altrettanto netta, passando da movimento federalista e autonomista a partito nazionale. La metamorfosi imposta da Salvini comporta l’abbandono tattico della battaglia per la secessione della Padania. L’indipendentismo lascia spazio al sovranismo e ai temi classici della destra: lotta alla mondializzazione, all’immigrazione, all’Europa della moneta unica e dell’accoglienza. Queste battaglie contro il “buonismo democratico” erano già presenti da tempo, ma è solo nella stagione più recente che vengono inquadrate in una cornice nuova, in cui l’idea di partito del Nord e la stessa questione settentrionale si stemperano dentro un progetto di nazionalizzazione dei programmi, delle parole d’ordine e, soprattutto, dei consensi. Mai come nel 2018 la Lega appare vicina a realizzare tale obiettivo, soprattutto sul piano elettorale. I risultati del voto indicano come il partito si sia consolidato nelle aree tradizionali (oltre il 30% nel lombardo-veneto) e sia cresciuto nelle regioni rosse (lo aveva fatto anche in passato ma non in modo così generalizzato, con un avanzamento che lo porta a sfiorare il 20% e a sfidare il Pd). Il dato nuovo è lo sfondamento nelle regioni del Centro Italia. È in quest’area, mai leghista in passato, che si coglie la portata del cambiamento: la più netta ed esplicitata connotazione ideologica ha aiutato presumibilmente a rafforzare il legame con frange di elettorato ex o post-fascista, storicamente radicate in questi territori e alla ricerca di una nuova e più forte rappresentanza. Infine, la Lega arriva anche al Sud, sebbene riesca a insediarvisi solo parzialmente.

Quali sviluppi politici si profilano per la formazione di Salvini? Occorre distinguere il piano dell’attualità da una riflessione più ampia. Se ci si concentra sugli esiti del voto appare chiaro che la virata a destra abbia consentito al partito di legittimarsi come forza trainante della coalizione. Tuttavia, se si sposta lo sguardo in prospettiva, emergono alcuni dubbi sulle reali capacità della Lega di sfruttare appieno questa congiuntura favorevole. Oggi il partito domina il centrodestra: a centro assorbendo i voti di Forza Italia, a destra cannibalizzando l’area di Fratelli d’Italia e dei gruppi neo/post-fascisti. Questo piano egemonico ha prodotto un quasi scontro con Berlusconi. Per quanto nella storia della Lega le relazioni con l’uomo di Arcore siano state spesso ambigue, la legittimità di comando del leader di Forza Italia non era stata mai messa in discussione. Al contrario, Salvini ha surclassato l’alleato sino a condizionare il posizionamento politico del suo partito, che finisce sì per sposare la linea leghista, ma in uno scenario in cui il voto moderato diventa minoritario.

L’incognita più grande sul futuro della Lega, e più in generale del Paese, deriva però dagli esiti stessi del voto. A differenza del 2013, la spinta anti-establishment si è fatta maggioranza e ha premiato entrambe le anime della protesta: una post-ideologica del Movimento 5 Stelle e l’altra radicalmente schierata a destra della Lega. Queste due espressioni del disagio elettorale faranno fatica non solo a governare assieme, ma anche a ricomporre le istanze di cambiamento avanzate dagli elettori in una direzione unitaria sul piano sociale e territoriale. Se è vero che la Lega è riuscita a intercettare una parte dell’elettorato 5 Stelle al Nord, è anche vero che al Sud il M5s rappresenta un argine per ora invalicabile che impedisce al leghismo di farsi progetto realmente nazionale. A prescindere dalla comune critica all’Unione europea dei burocrati, all’immigrazione incontrollata o alle caste della vecchia politica, Lega e Movimento 5 Stelle ottengono successi separati. Le mappe dei collegi, nella loro nettezza cromatica, consegnano la fotografia di un Paese spaccato in due, secondo linee divisorie che di nuovo non hanno proprio nulla: il Nord aggrappato allo sciovinismo leghista per difendere posizioni di vantaggio relativo e il Sud che demanda al ribellismo a 5 Stelle la speranza di neo-mediazione politica. L’estrema destra è sull’uscio di Palazzo Chigi. Sull’altro Colle però sono vigili.

Electoral Systems in Context: Italy

My chapter in The Oxford Handbook of Electoral Systems
Edited by Erik S. Herron, Robert J. Pekkanen, and Matthew S. Shugart

9780190258658Italy stands out among advanced industrialized democracies because of its frequency of major electoral reforms. In the postwar period, Italy has experienced four major electoral systems: the proportional representation (PR) system of the First Republic (1948–1992), mixed-member majoritarian (MMM, 1993–2005), and two varieties of PR with majority bonus (2005–2015, 2015–2017), plus a MMM in 2017. In addition, there have been many failed attempts at electoral reform through legislation or referendum. The frequency of electoral reform makes Italy an important case for investigating the causes and effects of electoral system change. However, the path to each change has been somewhat idiosyncratic: the major reform of 1993 came against the backdrop of revelations of massive corruption, while the 2005 reform can be understood as an attempt to engineer divided government by an incumbent coalition expecting losses in the next election. The effects of the electoral reforms have also not always been as expected.

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