Lega Nord e legalità. Bossi, Salvini e Alberto

mio articolo su Huffington Post

ANSA

I testi sacri del Carroccio narrano di un ordine perentorio impartito da Umberto Bossi che, in meno di 12 ore, produsse le dimissioni di tutti i consiglieri leghisti dalle allora Unità sanitarie locali. Il minimo sospetto di possibile contaminazione con i partiti tradizionali, spesso causa di spese allegre, indusse il Senatùr a rompere gli indugi marcando una distanza politica, prima che giudiziaria.

Bossi poteva farlo perché era un vero leader carismatico, un uomo politico aristotelico, che rivendicava la ‘politica come professione’, non la celava. Controllava il partito e il partito lo seguiva. Mentre il ministro Salvini ne è il capo per assenza di competizione e ciò nonostante lo guida cercando quasi ossessivamente una conferma del potere e del suo ruolo. Tipico delle leadership deboli, di chi ha paura e aggredisce, della differenza tra autorevolezza ed autorità. Del resto, il potere logora anche chi lo detiene e il ministro Salvini ne è la prova dimostrando ampiamente che non trattasi di carisma, ma di popolarità transeunte.

Ci sono differenze e similitudini tra la ‘questione morale’ in stile padano e le prediche della Lega Nord di Salvini.

Un mesto retaggio di quel periodo sono i taschini delle giacche dei politici leghisti spesso adornate di spille raffiguranti l’effige di Alberto da Giussano. Un personaggio leggendario, usato nella retorica bossiana quale elemento che contribuì a costruire, a inventare la comunità, la tradizione e rafforzare il senso di identità. Il combattente padano emblema della lotta dei comuni lombardi contro l’invasore barbarico. Una metafora che, mutatis mutandis, la Lega Lombarda usò contro Roma ladrona e padrona. Erano i tempi della lotta senza quartiere alle ruberie, vere o presunte, a Tangentopoli con relativi osanna per Di Pietro e il pool di Mani pulite. Al giustizialismo barbarico, ai cappi esposti alla Camera si è sostituito un pragmatico governo dell’amministrazione locale, sulla cui efficacia tuttavia sorgono vari interrogativi.

La spregiudicatezza di taluni amministratori della Lega Nord è più in linea con le famigerate clientele claniche del famigerato “meridione” mai del tutto sopite e mai ricondotte alla logica Repubblicana. Stupisce, ma solo i creduloni, la lentezza e l’incertezza con cui il segretario della Lega Nord oggi si esprima su vicende che ormai sono ben più che un errore statistico. La debolezza della politica nel porre filtri non morali, ma etici, alle scorribande, o leggerezze nel migliore dei casi, di politici locali. I quali sono poco o punto difformi dalla media nazionale e assai distanti dal pragmatismo di ‘rito ambrosiano’, ruvido ma efficiente, immaginato da Roberto Maroni, ma lontano dalla realtà.

L’immacolata diversità leghista è peraltro una pia illusione, raccontata come una favola, una leggenda che scalda i cuori davanti al camino, in un Paese con memoria corta e spina dorsale degna dei lombrichi.

Durante il II° congresso della Lega Lombarda, i membri del partito raccolsero in una damigiana (per ovvie ragioni di trasparenza, chiaro) i soldi da restituire allo Stato – 200 milioni di lire -, per la tangente “Enimont”. La Procura della Repubblica, ovviamente, declinò la “donazione”. Si tenne un processo con relative condanne.

Storia recente è poi la vicenda del “cerchio magico”, della famiglia di Bossi, dei diamanti in Tanzania, il crac di CrediEuronord, i #49milioni in comode rate, Legnano e la Regione Lombardia avvolta da una nebbia da anni Novanta. Salvini su questo è più garantista, cauto e incerto, rispetto all’assertiva condanna preventiva di presunti delinquenti in gommone pronti ad assaltare le mura di Gerusalemme.

Salvini, dicono taluni (sedicenti) esperti di comunicazione, pare sia in grado di entrare in contatto con il popolo, minuto o meno che sia. Non credo ci sia (solo) abilità tecnica, ma semplice auto-identificazione di una componente dei cittadini che sente come proprie parole d’ordine, modi e valori, del ministro Salvini. Il quale, dunque, era già molto italiano allorché faceva il bullo da giovane padano inneggiando alla diversità del Nord contro le angherie del potere romano. In forma inconsapevole esaltava i crismi dell’italiano non medio, ma mediocre. 

Facile dunque dirsi ora paladino degli italiani; nessuna abiura del passato secessionista padano, nessuna conversione, folgorazione o scuse (peraltro mai pretese ma solo recitate a spartito), sig. Ministro lei è da sempre stato un’icona del cliché italiota. Lei è arci-italiano da sempre.