Giorgio Napolitano: dal PCI al socialismo europeo

Il mio editoriale per il Domani parte di una serie di approfondimenti dedicati ai Presidenti della Repubblica

Il primo funzionario del PCI a recarsi in visita ufficiale negli Stati Uniti d’America. Lui esponente della corrente “migliorista”, un destro avrebbero detto i detrattori. L’accreditamento presso Washington funzionale al tentativo di accedere al Governo cui lavorava la segreteria Berlinguer e che i lusinghieri risultati elettorali del 1975 e del 1976 resero plausibile, se non ancora probabile, al netto dunque dei vincoli internazionali. Indispensabile, perciò, aprire un canale di comunicazione con la Casa Bianca. Era il 1978 e gli anni della solidarietà nazionale divennero propedeutici a una possibile stabile entrata dei comunisti nell’alveo governativo. La fine del compromesso storico e i cambiamenti all’interno della Democrazia cristiana post omicidio Moro resero il contesto impraticabile, e rinviarono de facto l’alternanza di qualche decennio. Il percorso che porterà un ex comunista nove anni al Colle è stato lungo, ma coerente. Giorgio Napolitano è politico di professione, di lungo corso. Sin dalla Liberazione di Napoli aderì al PCI e sposò la linea del segretario, della svolta di Salerno. Il realismo togliattiano è la cifra costante dell’azione di Napolitano che coniuga l’analisi della realtà, la difesa dei principi e dei valori costituzionali con l’afflato dell’emancipazione e del progresso propri del manifesto comunista. La prima prova arrivò con i Fatti di Ungheria del 1956 e la relativa repressione sovietica nonché la scelta di Togliatti di “coprire” la madre Russia. Allievo e sostenitore di Giorgio Amendola e della linea riformista che sarà la cifra umana, politica e intellettuale di una intera vita politica. Napolitano si cruccerà per quella scelta acritica, ma dettata dall’adesione a un sistema valoriale e organizzativo, a una comunità politica. La situazione cambiò nel 1968 con la Primavera di Praga allorché il PCI prese le distanze da Mosca, pur rimanendo nell’alveo delle organizzazioni ricadenti nell’arcipelago comunista di matrice sovietica. “Dal PCI al socialismo europeo”, come scrive nella avvincente e istruttiva autobiografia ripercorrendo le tappe del percorso politico, umano e intellettuale quale espressione dei massimi dirigenti ed esponenti della sinistra italiana. La pubblicazione di quell’importante testo avvenne l’anno prima dell’elezione presidenziale, un manifesto per il suo settennato, che poi diverrà più lungo. La scalata al Quirinale era dunque iniziata negli anni del PCI, accreditandosi come componente eterodossa, aperturista, dialogante e incline a superare l’organicismo comunista e la dipendenza da Mosca, culturale e ideologica. Dopo una lunga e significativa esperienza all’interno degli organi di partito, Napolitano ricoprì la carica di Presidente della Camera (1992-1994) e poi di ministro dell’Interno tra il 1996 e il 1998 nel primo governo Prodi, una carica pregna di simbolismo nell’immaginario della militanza comunista poiché rappresentativa del potere statale, dell’agognata presa della Bastiglia. Presidente della Commissione affari costituzionali del parlamento europeo (1999-2004) e senatore a vita nominato da Ciampi nel 2005. L’anno dopo il segretario dei DS Piero Fassino per il Colle propose D’Alema in prima battuta, ma il consenso non si coagulò, primariamente nel centro-sinistra. Eletto al quarto scrutinio con i soli voti dei partiti della maggioranza di governo (543) venne spesso per questa ragione attaccato e tacciato di partigianeria ed eccessiva vicinanza al centro-sinistra e al Partito democratico poi, di cui in ogni caso era considerato padre nobile ed ascoltato consigliere e mediatore. La Lega Nord votò Bossi e il centro-destra scheda bianca, tranne Marco Follini sempre autonomo e intellettualmente indipendente. Berlusconi dapprima “neutro” innervò il suo niet all’anticomunismo, sua cifra politica ed elettorale in un Paese senza memoria, proprio verso il meno comunista di tutti. Napolitano è il primo presidente pienamente inserito nella dinamica maggioritaria, o meglio bipolare del sistema partitico. Sebbene la seconda fase della sua presidenza coinciderà con la destrutturazione delle coalizioni pro/contro Berlusconi e la presenza di un terzo polo, il M5s.


L’Europa come faro, stella polare dell’azione politica nel partito, nelle istituzioni, al governo. Una delle prime uscite ufficiali da capo dello Stato fu l’omaggio alla memoria di Altiero Spinelli in quel di Ventotene nel ventennale dalla scomparsa. Il giorno dopo la sua proclamazione Napolitano conferì a Romano Prodi l’incarico per la formazione del governo, il quale nacque avvelenato da una vittoria mutilata dalla legge elettorale intenzionalmente precarizzante. Non bastarono i 24.000 voti di scarto sul centro-destra nella contesa tra due coalizioni piglia-tutti (nel vero senso della parola). Il centro-sinistra sempre iper-frammentato e senza strategia e il collante anti B. non bastò più. Le fragilità umane e politiche di varie forze politiche ne determinarono la fine anche grazie agli unguenti convincenti spalmati da emissari berlusconiani in Senato e che indussero alcuni a cambiar casacca. Le scalmanate di Rifondazione comunista sulla politica estera e l’inserimento nell’agenda della riforma del sistema elettorale resero tutto precario. Prodi è sfiduciato e Napolitano non poté che sciogliere le camere nel 2008.
In realtà Prodi dopo alcune controverse votazioni al Senato aveva già rassegnato le dimissioni nel 2007 anche a seguito della polemica suscitata dal sostegno di alcuni senatori a vita, elemento che espose il governo alla critica circa l’esistenza di due maggioranze: quella dei senatori eletti e quella politica. Napolitano respinse le dimissioni e rinviò l’esecutivo alle camere.
La legislatura più breve dal 1992-94 terminò nel peggiore dei modi ed emersero insalubri recrudescenze diciannoviste con laterali tratti camerateschi; il presidente del Senato Franco Marini provò censurare la bagarre: “Colleghi, non siamo in un’osteria…”. Proprio a Marini Napolitano conferì un incarico esplorativo formalistico quanto scontato nel fallimento, prima di esprimere il rammarico per “dover chiamare di nuovo gli elettori alle urne, senza che la riforma elettorale sia stata approvata”. Quelle del 2008 sono le elezioni dei due nuovi partiti a “vocazione maggioritaria”, nati per unione di forze politiche e non per scissione, una novità nel contesto italiano. Il Pd di Veltroni e il PdL di Berlusconi convogliarono oltre il 70% dei consensi, non accadeva dal 1976. L’euforia per il bipartitismo possibile e l’alternanza tra conservatori e democratici durò lo spazio di un mattino, quanto le repentine divisioni mai sopite nei due campi. Il governo del Cavaliere nacque azzoppato dalla crisi economica e finanziaria internazionale, ma provò a tenere insieme la prospettiva di azione politica e il rilancio del Paese. Ma il PdL sorto sul predellino milanese con la caustica estorta benedizione di Fini – “siamo alle comiche finali” – iniziò a frantumarsi. L’ex leader di AN era Presidente della Camera e Napolitano lo difese allorché la tensione con Berlusconi aumentò e questi lo mise al centro di una dura azione politica: “volta a delegittimare il Presidente di un ramo del Parlamento” dirà il capo dello Stato. L’epurazione di Fini reo di avere alzato il dito e la voce davanti al Cavaliere fu conferma della natura padronale e personale del partito di Arcore. Nel “campo a noi avverso” lo scenario era altrettanto funesto e le dimissioni Veltroni celebrarono l’epopea introversa e fratricida della sinistra italiana aprendo la strada al cupio dissolvi ancora in corso.
Un’azione politica e istituzionale importante avvenne sul tema della giustizia, croce e mestizia dei governi berlusconiani, con il presidente Napolitano che provò a correggere il tiro della maggioranza di centro-destra. Sul cosiddetto lodo Alfano, dopo che la Corte costituzionale aveva dichiarato incostituzionale lo stesso, che prevedeva la sospensione dei processi per le più alte cariche dello Stato. Napolitano manifestò le sue idee con due esternazioni, abbastanza critiche, ma tuttavia procedendo alla promulgazione della legge dopo avere chiaramente segnalato che “il giudizio di costituzionalità spetta in via esclusiva alla Corte costituzionale”. Su una politica che investì elementi etici come nel caso Englaro, Napolitano prima segnalò al capo del governo di evitare un “contrasto formale” in materia di decretazione d’urgenza e poi non firmò lo stesso decreto allorché Berlusconi mantenette la linea di procedere per “urgenza”. Stessa sorte ebbe il decreto Bondi sui teatri lirici per il quale Napolitano invitò il governo a rivedere alcuni punti critici.
Il terremoto che investì duramente L’Aquila fu un colpo per l’intero Paese oltre che per il governo nonché per alcune agenzie particolarmente inefficienti come la protezione civile a guida Bertolaso. La vera fine del governo Berlusconi avvenne con la lettera Trichet-Draghi che però sancì una incapacità patente di affrontare la crisi economica e finanziaria. Cui si sommarono tensioni interne alla maggioranza con il rischio di voto di sfiducia; addirittura, in un caso la camera bloccò il disegno di legge sul rendiconto dello Stato. Napolitano “scese” in campo per guidare e accompagnare i vari attori e le istituzioni soprattutto salvaguardando il prestigio italiano all’esterno, ormai ampiamente compromesso. Le dimissioni di Berlusconi furono annunciate da un inusuale comunicato del Quirinale: “il presidente del consiglio dei ministri rimetterà il suo mandato al capo dello Stato”, e aprirono la strada all’”operazione Monti”. Nominato senatore a vita l’ex commissario europeo divenne capo del governo nel novembre 2011. Si trattò di un governo del presidente, con una ampia maggioranza – una grande coalizione, un governo di unità nazionale (senza la Lega Nord)-, che suppliva alle debolezze partitiche. E al mancato coraggio del centro-sinistra. Napolitano visse una vicenda di elevata conflittualità con una componente della magistratura relativamente all’utilizzo di alcune intercettazioni telefoniche, e sollevò un conflitto di attribuzioni. Sul piano sociale e politico va segnalato l’incontro con le vedove di Giuseppe Pinelli e Mario Calabresi, nel lavorio costante per la riconciliazione nazionale. Inflessibile sui valori della Resistenza da cui nacque la Costituzione, indiscutibilmente da scrivere al patrimonio collettivo. Principi e valori legati al valore del paese ribaditi anche in occasione delle celebrazioni per il centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia (1861-2011). Le elezioni politiche del 2013 rappresentarono uno spartiacque nella vita politica italiana e anche per la presidenza Napolitano. L’exploit qualunquista del Movimento 5 stelle generò un’impasse parlamentare. Il segretario del Pd Bersani venne costretto a una pietosa sceneggiata negoziale e autodafé in diretta tv con impertinenti populisti di giornata e l’incarico esplorativo – “fateci iniziare e poi vediamo”- gli fu conferito da Napolitano più per prassi che per convinzione e si esaurì in nulla di fatto. La deflagrazione del PD nel tentativo di eleggere il successore di Napolitano produsse la bocciatura prima di Marini e poi di Prodi, da quei franchi tiratori ben più numerosi e tenaci dei famigerati 101. L’assemblea riunita e senza via di uscita vide in Napolitano il salvatore e gli chiese di restare in cambio di probità e riforme, che tuttavia mancarono. Risultò pertanto eletto al sesto scrutinio con il 73% contro il 21% di Stefano Rodotà sostenuto dal M5s e Sel, da una maggioranza cospicua rispetto a quella del 2006 (54%) tra le più basse della storia presidenziale.
A prendere le redini del governo fu Enrico Letta a due giorni dalla festa della Liberazione. Il nuovo esecutivo nominò una Commissione di 35 saggi (con un solo scienziato politico) per affrontare il tema riforme istituzionali, ma sul piano decisionale apparve bloccato da veti reciproci e infine terminò la corsa con l’intervento di Renzi. Cui Napolitano conferì l’incarico avendo registrato un cambiamento di orientamento in seno al gruppo parlamentare piddino.
Trent’anni dopo la sua visita americana fu Napolitano ad accogliere il presidente della “speranza”, Barack Obama proprio ad inizio mandato. Simbolicamente un ciclo storico e politico si chiudeva.
All’inizio del semestre bianco Napolitano illustrò il senso della logica politica e istituzionale che aveva guidato il suo operato e il ruolo del Presidente della Repubblica che “non si esaurisse nel tagliare nastri alle inaugurazioni” e che egli “dovesse prendersi delle responsabilità senza invadere campi che non sono suoi”.
Il New York Times lo definì “Re Giorgio” per il suo interventismo e per il suo prestigio. Distorsione ottica americana; Napolitano è stato “solo” un Presidente garante della Unità nazionale e del rispetto della Carta costituzionale.

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